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mercoledì, Luglio 17, 2024
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Amarcord di Arezzo

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Benvenuti nell’affascinante mondo di “Amarcord di Arezzo”, dove i personaggi folcloristici locali sono celebrati e amati dai residenti della città e oltre. Ogni personaggio bizzarro ha lasciato un’impronta indelebile nel cuore degli aretini, contribuendo alla ricca storia e alla vivace cultura della nostra comunità.

Da figure leggendarie del passato a personaggi contemporanei, ciascuno porta con sé storie uniche, tradizioni e aneddoti che risuonano attraverso le strade di Arezzo.
Questi personaggi incantevoli rappresentano la tessitura multiforme della nostra città, arricchendola con la loro presenza colorata e le loro peculiarità distintive.

Unisciti a noi mentre esploriamo le strade e i vicoli di Arezzo per scoprire le tracce lasciate da questi iconici personaggi.
Attraverso Amarcord di Arezzo, celebreremo la vivacità e l’unicità della nostra comunità.

(Foto di Pietro Simoncini e Gino Perticai-Testi di Umberto Zucchi)

MAGA BONICIOLI
Bonicioli Del Vita Ivana famosa maga di fama internazionale conosciuta e stimata da anni nel mondo dello spettacolo del giornalismo del cinema e dello sport.
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Conosciuta da tutti gli aretini per l’eleganza e raffinatezza del suo comportamento ma anche per la partecipazione a programmi televisivi di moda e costume.

 

 

ALDO ADUA MELE
Aldo era il suo vero nome, Mele d’oro il soprannome più usato nei suoi confronti; è stato il più simpatico gay che Arezzo abbia mai avuto.
Scendeva dai poggi sopra Palazzo del Pero col suo ombrello verde e una borsa piena di frutti del suo orto. Per le strade della città non c’era giorno che non si ‘ingarellasse” a parole con qualcuno.
Le sue battute, pronte e argute, lo facevano un personaggio famoso e a suo modo, importante per le vie del centro. Conosceva tutti e a tutti si rivolgeva senza timore di riverenze alcune.Continua a leggere


Possedeva uno scantinato in Via Dei Cenci che avrà affittato e sfittato centinaia di volte a noi giovanotti per uso club o scannatoio.
Io spero, Aldo dovunque tu sia adesso, che finalmente tu abbia trovato quello che cercavi errando ogni giorno per le strade d’Arezzo e che dove sei tu sia riuscito a far finalmente pascolare le tue “mandrie scatenate”.

 

LA SPUTACI
Negli annisessanta, durante le quotidiane escursioni di noi “brinzelloni” per il Corso, uno strano personaggio accompagnava i nostri interminabili pomeriggi.
La Sputaci, al secolo Angiolina Cipollini, era ad aspettarci seduta sotto i Portici oppure all’incrocio con via Garibaldi.
L’Angiolina, coi suoi capelli tinti con la cera da scarpe, la sua “sottanona” vecchia quanto lei e il suo immancabile bastone, era lì sempre, col sole e con la pioggia a raccattare mozziconi di sigaretta e ad elemosinare qualche spicciolo.
Per noi ragazzi era una fonte di sollazzo prenderla in giro per osservare poi le sue colorite reazioni che non di rado si concludevano a colpi di bastone.
Nessuno sapeva la sua età, nessuno sapeva da dove venisse ma, se qualche volta non la vedevamo, calava in noi un leggero velo di tristezza.
Ci mancavano le battutacce che proferiva, non risparmiando soprattutto le consorti dei signori bene, ci mancava in fondo la colorita reazione alle nostre “cattiverie” nei suoi confronti.
Angiolina è stata per Arezzo forse più famosa del Sindaco ed era entrata a far parte della vita cittadina.
Ancor’oggi alcune sue battute sono nell’uso comune e il suo ricordo evoca tempi in cui eravamo felici per nulla e ci sentivamo tutti amici in una città che adesso non ci riconosce.
Se ne andò una mattina del 1970, senza clamore così come era venuta, lasciando un vuoto in tutti noi, poveri, ricchi, bravi ragazzi, fannulloni e perdigiorno.
Grazie Angiolina, ci hai insegnato pur con le tue sofferenze, un po’ di vita vera, hai lasciato un ricordo che ci accompagnerà sempre perché fa parte del periodo più bello della nostra vita, grazie Angiolina per esserci stata.

 

 

TOGNON BIAGIO
Tognon Biagio aretino di adozione in quanto le sue origini sono venete dopo tristi giorni passati al padiglione (neuro) trasferito al padiglioncino portava il cibo con il carrello agli altri degenti chi lo ha conosciuto lo descrive come una persona squisita ed eccezionale, frequentatore assiduo del “Barrino” in Colcitrone, famoso tra gli amici per la imitazione del coccodrillo data la sua enorme bocca lo si vedeva spesso in compagnia dell’Assunta ne con la quale ha avuto un felice rapporto.
E’ rimasta famosa la sua frase ad una cena dei festeggiamenti del quartiere di porta Crucifera rivolgendosi all’allora sindaco Aldo Ducci e toccandogli la gobba “gobbo te gobbo io (avendola anch’esso) evviva.

 

 

IL MIGHELA
Si vantava di aver bevuto nella sua vita, conti alla mano, quasi cinque autocisterne di vino.
Non si può dire che fosse stato facile incontrare il “Mighela” sobrio per le vie d’Arezzo il tardo pomeriggio, la notte e pure la mattina.
Era il più assiduo frequentatore delle “mescite del vino” luoghi al tempo molto frequentati.
La camminata malferma, il naso da pugile che si toccava in continuazione nell’espressione di “in guardia”, la sua rabbia contro i “grattigiani”, ne facevano un personaggio preso di mira da tutti noi.
Finiva sempre a moccoli e ad innocui tentativi di aggressione con l’immancabile offerta degli spiccioli per un altro bicchiere.
Di lui famosa è rimasta la frase con la quale lo salutavamo: “Mighela, chiudi la bocca sennò prendi l’aceto!”.

 

 

FRANCESCO
Chi negli anni 60 non lo ha mai visto sfrecciare per Via Garibaldi o per via Cittadini in sella ad un motorino “Romeo” truccato all’inverosimile, come se fosse in una pista?
Francesco Giglioli non passava certo inosservato, al vecchio Ospedale si era imposto il ruolo di parcheggiatore e se uno lasciava la macchina fuori sosta potevi star sicuro che aveva già chiamato i vigili.. Lui all’ospedale ci lavorava come addetto alla lavanderia e, già tanti anni fa, portava la biancheria fino al Neuro col baroccio e la miccia attaccata davanti.
Lo avevano soprannominato Agostini per la sua passione delle corse in motorino, a chi per scherzo gli chiedeva se aveva corso col famoso pilota lui rispondeva: ”si, ero il secondo” .
Ci ha raccontato la sua storia come se la stesse vivendo anche oggi che non può più muoversi e vive dei suoi ricordi nell’Istituto dove abbiamo incontrato gli altri che, come lui, hanno fatto parte dei ricordi di un passato che ormai è stato travolto dalla modernita e dalla frenesia; a noi piace però ricordare quel motorino con Francesco sopra, sfrecciare ancora per le vie del centro libere dal traffico odierno.

 

 

TANACCA
Il suo aspetto era quello di un uomo rassegnato alla sorte, noncurante di tutto, un po’ curvo basso di statura, riuscì a sfuggire ai tedeschi durante la guerra, unico superstite di 48 persone trucidate, morì poi in Africa nel 53 per uno scherzo da vigliacco di un aretino.
Le nottate estive era abituato a farle in bianco, la sua esclamazione preferita era “sciaburdito” era un buontempone abile ballerino era anche proverbiale la sua abilità di sarto. Ad Arezzo si diceva: bello questo vestito chi te l’ha fatto?
La risposta era : Tanacca dalla finestra!
Questo dovuto al fatto che un giorno, un tizio passeggiando per il Corso vide Tanacca alla finestra e disse: ” mi proprio te devo venire a prendermi le misure per una muta di panni!”
“Un c’è bisogno disse Tanacca, fatte vedere, scostete dall’amici che te guardi bene…. Basta cusì”. Da quel giorno si sparse la voce che Tanacca era tanto abile da prendere le misure al solo vedere la persona interessata.
L’ARBITRO
Dino, nato con due grandi aspirazioni nella vita: servire la Messa e fare l’arbitro di calcio.
In entrambe c’è riuscito in maniera egregia.
Fin da ragazzo ha lavorato alla Pia Casa, dove soggiorna tutt’ora in ottima forma, serviva la messa dalle suore e in molte parrocchie Aretine, dove era conosciutissimo, poi decise di fare il corso per arbitri e da li č iniziata la sua carriera,.
Non credo ci sia giocatore dilettante negli anni 60 che non lo ricordi, ferreo nelle decisioni, rispondeva ai tradizionali ”cornuto” con sonore pernacchie.
Tifosissimo dell’Arezzo, lo trovavi spesso al Bar Amaranto oppure al giro per il Corso, rimaneva impresso per la semplicità dei suoi modi e per la sua grande dignità che conserva tutt’oggi: lui č stato per Arezzo uno dei primi esempi di volontariato e per questo ora si trova su queste pagine.
ASSUNTA
Compagna fedele ed inseparabile di Tognon Biagio, assidua frequentatrice delle cene dei quartieri specie quelle della vittoria.
Con un piccolo compenso viene spinta da chi glielo offre a baciare sulle labbra all’improvviso il malcapitato di turno.
Non era difficile trovarla “Dalla Graziella” in Colcitrone dove di tanto in tanto si recava per il pranzo.

 

 

 

NONNINA SANTA RITA
Dei personaggi di cui abbiamo parlato in queste pagine, la Nonnina è forse quello che ricordiamo con più tenerezza.
Curva su sé stessa, i capelli bianchi raccolti a crocchia, l’immancabile borsa sdrucita, vagava per le strade del centro seguita dai suoi “gatti”.
Le sue origini non erano Aretine, la frase con cui ci apostrofava era: “cento lire alla nonna!” che immancabilmente servivano a comprare qualcosa per i suoi unici amici gatti seguite dalla consueta consegna di un Santino raffigurante Santa Rita.
Non dava certo alcun fastidio, si limitava a chiedere con discrezione qualche lira e, a volte, ti raccontava della sua vita.
Stranamente quando se ne andò, sparirono con lei anche i gatti che avevano dato un senso alla sua scelta di vagabondaggio.
Con lei se ne è andata forse la “nonna” di tutti noi ma il suono della sua nenia, è rimasto tra le vecchie vie del centro.
BEPPINO
Solo pochi intimi potevano permettersi di chiamarlo “Draculino” uno dei personaggi più amati della Casa di Riposo.
La sua caratteristica da sempre era far paura ai ragazzi ridendo sgangheratamente mostrando i suoi dentini aguzzi.

 

 

 

PALLINO
Personaggio noto per il suo carattere, le sue battute e per i furti di biciclette.
Non aveva casa dormiva dove capitava.
Diceva: “Quando vado a dormire un vò avere nemmeno un duino un tasca perché si murissi un vò che me troveno nemmeno un ventino”. (20 centesimi)
Non aveva vestiti e quando gli domandavano come faceva per cambiarsi, lui rispondeva: “la notte ce n’è tanta stesa sui fili a asciugare e anche se unn’è stirata io la metto cusì!”
Naturalmente ad Arezzo quando spariva qualcosa, bicilette o rubato nei pollai, Pallino veniva puntualmente cercato dalla questura e dopo averci trascorso la notte diceva: “Quando rubbo un me piglieno mai, quando un rubbo, me piglieno subeto e io dico che co’ la mi patente ce vanno tutti a caccia!”
LO SCIENZIATO BONICIOLI
Di origini rumene ma diventato italiano e aretino. Come se gli aretini caratteristici non fossero stati sufficenti!
(Titolo della Nazione italiana dll’11 febbraio 1958) “La scienza” di Bonicioli allestito anche un missile dall’inventore della “bomba benefica”.
Questa scritta era affissa all’entrata del suo laboratorio: “A norma di legge è proibito a qualsiasi persona entrare nel laboratorio dello scienziato Bonicioli, onde evitare di disturbarlo.
Scienziato Bonicioli. ”

Tante le sue invenzioni:
“La bomba benefica” che iniettava nelle vene un’invisibile e infallibile “siero dell’amore”
“Il dissolvitore” una grossa macchina che fa tornare indietro grosse nuvole, praticamente contro le alluvioni.

Razzo per la discesa sulla luna studiato nel 1934 in Romania e successivamente dopo guerra inviato a varie ambasciate del mondo.

Un razzo per sbarcare sulla luna
Ripristinatore del suono delle campane del duomo.
Il robot parlante della fortuna.
La cintura per bloccare i ladri come statue

Quando gli dicevano: “lei è come Guglielmo Marconi” lui rispondeva: “No sono meglio!”
IL PIDOCCHINO ovvero L’ecstasi degli anni 60
Chi ha passato i quarant’anni o più non può non ricordarsi del vecchio Cinema Odeon ai tempi ubicato in Via Isonzo più famosa per il cinema, chiamato anche Cinema Isonzo, che per la battaglia che rese celebre il Fiume.
Si aspettava il Sabato e la Domenica con ansia da “Febbre del Sabato sera” per andare al “Cine” al Pidocchino, il più scalcinato cinema della Città ma anche il più frequentato dato il basso costo del biglietto.
“Domani c’è Maciste contro i Galli, dillo anche al Beppe così porta le citte!” era la parola d’ordine che precludeva ad un pomeriggio da sballo agognato per un’intera settimana.

Il locale era piccolo, con una platea dalle sedie di legno e una minuscola galleria piena fino all’inverosimile. Una volta entrati, fatto il biglietto dalla donnina sotto misura alla cassa, passato il controllo da Francesco, la maschera che si prodigava in velate minacce se avesse sentito far casino, e fatto il pieno di gazzosa e “rigulizie”, iniziava la rumba.

I posti migliori erano in galleria, lontano dagli occhi indiscreti della maschera che al primo accenno di buriana ti pigliava educatamente per un orecchio e t’invitava ad uscire, perché se eri in compagnia di qualche ragazza, potevi tentare un timido accenno di struscio seguito immancabilmente da un sonoro “labbrone” cui faceva eco il tumulto degli amici in sala.
Tra fischi e moccoli finalmente, salvo rotture della pellicola, iniziava il film: di solito un romanzone epico o una comica di Totò e insieme ad esso cominciava il nostro sballo. L’emozione era quella di poter fumare l’agognata e proibitissima sigaretta, riempire il pavimento di gusci di semi salati oppure di allungare una mano senza ritorsioni, biascicare il masticone insieme a grandi sorsate di gazzosa e far commenti ad alta voce sulle scene che sfilavano sullo schermo con la speranza di non essere inquadrati dalla inesorabile pila di Francesco che in fondo in fondo, pur con la sua burberia, ci considerava un po’ come suoi nipoti.

Il “luogo di perdizione” era frequentato un po’ da tutti i ragazzi del tempo, era la nostra sala giochi, il nostro pub, la nostra discoteca; il Politeama o il Supercinema li lasciavamo ai più grandi, a quelli con più soldi in tasca.
Il Pidocchino, o meglio il suo ingresso, era anche il luogo delle dispute e delle scazzottate tanto di moda adesso nelle discoteche, che però finivano quasi sempre a gazzose e a pacche sulle spalle; quante amicizie venivano consolidate in quel locale!

Ora il vecchio Cinema non c’è più e pochi forse se lo ricordano o fanno finta di non ricordarselo; oggi si va a Teatro spesso senza capirci nulla, oppure all’ultimo spettacolo nei nuovi cinema dove non si sente volare una mosca data l’importanza della proiezione che, anche se è una stronzata pazzesca, va seguita con attenzione perché la critica ha detto essere un capolavoro.
Molte volte, guardando un vecchio film, mi ricordo di Maciste, di Franco e Ciccio, di Totò e una parte di me torna ai grandi sballi di”gazzosa e rigulizia” passati al vecchio, caro Pidocchino.
IL SURDINO
Nonostante fosse sordo ed analfabeta preferiva restare solo, non voleva essere ivitato e tantomeno si dedicava all’accattonaggio.
Si è sempre arrangiato onestamente, viveva in un fondo in Colcitrone, da qui e poi successivamente da un fondo in campagna fu mandato via, fece una capanna sopra un carretto, con uno scatolone.

Essendo sordo la sua parlata era una cantilena; gesticolava molto e per questo divenne divertimento per i buontemponi; sempre dialogondo con lui con benevolo rispetto.
Il suo lavoro consisteva nel cercare stracci e ferro vecchio, inoltre a sera andava a prendere ranocchie che poi vendeva la mattina assieme al pesce in giro per Arezzo.
Si racconta che andava a pesca con Stacchio e nel contare e dividere la rane, Stacchio diceva: “una a me una a te e una a Stacchio” inoltre Stacchio sceglieva le più grosse; quando il Surdino gli disse: “Stacchio… o che è paura che me mordano quelle grosse?”

 

 

 

L’UOMO D’ORO
Negli anni 50 e 60 nel centro di Arezzo c’era una figura alta e allampanata. Lo conoscevamo tutti, con l’inseparabile bicicletta e gli strani abiti, sostava silenzioso agli incroci con il suo abito color dell’oro.
I più anziani lo ricorderanno mentre i più giovani ne avranno forse sentito raccontare la storia, triste, dolce, come tutte le cose che furono e che, purtroppo non sono più.

Quando c’era lui sotto, il semaforo aveva un colore in più: uno sgargiante color oro che non poteva passare inosservato.
Non sappiamo chi fosse stato e da dove venisse, l’uomo taciturno che ogni giorno si trovava presso i principali incroci cittadini.

I suoi vestiti, come pure l’immancabile bicicletta, erano completamente colorati da uno spesso strato di porporina il suo atteggiamento immobile, con gli occhi persi nel vuoto, facevano pensare ad un uomo in paziente attesa.

Si dice che aspettasse il figlio disperso e, per farsi riconoscere, si mettesse agli incroci delle strade proprio sotto i semafori, dipinto con quel colore inconfondibile.
Non ho mai sentito l’uomo d’oro parlare né chiedere nulla a nessuno; se ne stava lì in silenzio nella sua attesa senza fine.

Il suo stravagante abbigliamento era diventato familiare in tutta Arezzo e intorno a lui si facevano le più stravaganti ipotesi.
Lui stava lì, coperto d’oro, in un’attesa che durava da anni e che portava in sé un gran senso di dignità.
Lo trovarono alcuni anni fa, morto in una stanzetta in Via del Trionfo, vestito d’oro e con l’espressione serena: chissà che non abbia trovato ciò che per tanto tempo ha aspettato agli incroci accanto ai semafori?
CONTE SCOTTI
Per anni è stato il simbolo vivente del Bar Gallini, tanto che quando fu venduto, ci si accorse che il Conte era accatastato con l’immobile..
Carlo Rossi, noto a tutti come Il Conte, è stato forse uno dei personaggi più conosciuti fino alla fine degli anni 80.
Aveva fatto una mescolanza tra i cognomi dei familiari e si faceva chiamare Carlo Rossi scotti, avvallando il fatto anche con l’anello d’oro con stemma nobiliare che ancora potete vedere indossato nella foto.
L’eleganza per lui era un chiodo fisso, inappuntabile con i suoi pantaloni rigorosamente a campana e stirati fino all’inverosimile, le scarpe lucidate a tal punto da potercisi specchiare, e le camice inamidate portate con i becchi alzati ne facevano un simbolo che a chi non lo conosceva, poteva apparire inquietante.
Il lavoro non era il suo pezzo forte, un Conte non può abbassarsi alle cose che fa il volgo, lui usciva soprattutto la sera per pontificare tra il Bar Gallini e l’hotel Continentale dove cenava (forse gratis) tutte le sere.
La notte saliva spesso sul treno per Firenze dove diceva avesse interessi di donne e di affari.

Si racconta di lui che è riuscito a rimanere per 20 anni assiduo frequentatore del bar senza mai consumare un cioccolatino, non parlava mai di donne, e a noi la cosa faceva fare molte congetture, se ti chiedeva di accompagnarlo a Firenze, si accertava prima che macchina uno avesse disdegnando tutte le auto sotto la Mercedes.

La sua ossessione erano i “topi” ovvero la gente comune alla quale non degnava la sua amicizia, era attratto dai ricchi, da coloro che contavano, dai boss come amava definirli.
Si vantava di non essersi mai svegliato in vita sua prima di mezzogiorno e di non aver mai preso un filo di sole(cosa da topi), i suoi calzini erano rigorosamente trattenuti da un paio di giarrettiere che a noi facevano un po’ ridere.

In tasca aveva una banconota da un dollaro e un assegno da svariati milioni che però non ha mai cambiato, che esibiva continuamente; tutti lo conoscevano e gli volevano bene perché avevano capito la vera natura del suo atteggiamento: Carlo aveva deciso di essere un Conte e ci riusciva.
Ultimamente, rimasto solo, ho provato un po’ di tristezza per lui; le sue camice non erano più inamidate impeccabilmente, i suoi pantaloni erano stazzonati e il suo incedere indeciso..
Anche i Conti invecchiano e lui non ha fatto eccezione, è rimasto però nella memoria di chi lo conosceva, di chi ha vissuto con lui assurde avventure, di chi ancora lo ricorda e lo saluta con affetto…
CLETO
Il rosso è stato ed è tuttora il suo colore preferito: quello del dolce, profumato vino delle nostre terre.
Non c’era osteria che non conoscesse, non c’era tipo di vino che non avesse assaggiato.
Il nostro viveva a Giovi dove aiutava il fratello idraulico anche se per lui l’idraulica era una cosa considerata inutile visto che serviva a far scorrere l’acqua, nei momenti liberi, tanti in verità, lo trovavi alla Vinicola di piazza S. Agostino oppure all’Agania di via Mazzini, tappe obbligate per lui.Continua a leggere


Soprannominato Don Bevi vino dagli amici e dagli altri ospiti della Pia Casa dove vive da molti anni, è ancora arzillo e esce spesso per recarsi al Centro Anziani di S. Clemente dove guarda giocare a bocce e nel frattempo si fa il quartino quotidiano.
Da giovane ha fatto anche il chierichetto, non tanto per la fede, quanto per il gusto del vinsanto del prete che a suo dire non ha eguali.
Quando se “rubbava” i coccomeri
Ci hanno ormai abituati a vederlo sui banchi dei supermercati, di forma oblunga, nei chioschi dove lo consumiamo ghiacciato e in fette tagliate perfettamente, addirittura in foggia di cubo nei market Giapponesi, oppure servito svuotato della polpa e riempito di gustose bevande nei cocktail party.
Ma il coccomero, quello tondo, grosso, succoso,festa di colori e sapori delle nostre ormai lontane estati dov’è mai finito?
Il Coccomero, si quello è il nome che da sempre è stato usato dalle nostre parti per definire questa squisita cucurbitacea tipica della Val di Chiana, ormai è una rarità al pari della bistecca Chianina o del fagiolo zolfino dell’alto Valdarno.
Una volta, si vedevano enormi e imponenti, crogiolarsi al sole negli orti e nei campi in attesa di essere colti per la gioia di tutti.

Era il frutto più ambito ad essere”fregato” , si perché le ciliegie erano considerate furto facile al pari dei bacelli e delle mele ma vuoi mettere l’abilità, l’astuzia, il coraggio e la soddisfazione di fregare un cocomero da 15 chili?
L’impresa era ardua: prima di tutto occorreva identificare il campo con i frutti più grossi e vicino alla strada( di solito il territorio di caccia si estendeva da Pieve al Toppo a Frassineto) per non dover faticare troppo con cotanto peso e spesso col contadino incazzato nero alle calcagna.

Seconda prova di abilità era il riconoscere quelli mezzi da quelli baloci il che implicava una certa perizia nel tamburellare il frutto e nel saper riconoscere il giusto suono di rimando.
Anche il picciolo era di grande aiuto: se moscio era indizio di cocomero granoso e dolce.
Il saggio non era molto praticato, un po’ per il senso di rispetto che si aveva verso i frutti della terra e un po’ perché lavorando al buio non era facile vedere il colore del tassello.
Se tutto era stato fatto con scrupolo, se il trasporto non aveva causato intoppi e se il malloppo era quello giusto, quando poi insieme armati di coltello ci si apprestava al taglio che emozione!
Penso sia paragonabile solo ad un tagliatore Olandese quando spacca un diamante col primo colpo.
Se tutto era come doveva, il suono unico, granoso del cocomero che si spaccava perfettamente a metà, ci compensava di tanta fatica.

Una fetta enorme, mangiata calda, ti toglieva la sete e ti rinfrancava il palato, e poi… era più buono di quelli di oggi tirati su a concimi chimici, al riparo delle serre; quelli erano cocomeri! Sudore dei nostri contadini, terra sincera di Chiana, sole e concio a donarci quello che adesso è quasi solo un ricordo.
SPICCHENDOICH
Spicchendoich era un personaggio dell’Arezzo di ieri.
Ho fatto in tempo a vederlo trascinarsi con quel suo sorriso bonario e come dice Dino Sarrini: “con la sua camminata dondolante, i suoi occhi chiari apparentemente inespressivi, giù per Borg’unto, all’angolo di via Pescioni o in Piazza Grande, sempre pronto Piero, questo era il suo nome, ad accettare le nostre battute e a bere tutte le fandonie che gli dicevamo.”
Chissà quale era l’origine del suo nome, forse dal suo tentativo di dare indicazioni turistiche agli stranieri.
Era lo stesso periodo della Sputaci e di altri personaggi che popolavano una Arezzo agricola, ma ancora semplice e con una identità!


 IL GUERRIERO DE MONTIONE 

Santino Mazzini, attore del Piccolo Teatro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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2 Commenti

  1. Posso dare indicazioni su 3 personaggi:
    1) Spicchendoich veniva chiamato così per il suo aspetto “teutonico” (era alto e biondo)
    2) L’uomo d’oro, di cognome Sandroni, aveva alle spalle una triste storia: un figlio mai tornato dalla guerra per il quale lui era andato fuori di testa, tanto da vestirsi così per attirare l’attenzione del figlio il giorno in cui fosse tornato.
    3) Adua non si chiamava Aldo, bensì Umberto Casucci. Aldo era il soprannome alternativo.

  2. Ho 40 anni e vivo in centro dalla nascita. Nessuno si ricorda di una signora apparentemente anziana, clochard, che girava sempre in centro con il fazzoletto in testa e un vestitone largo e lungo quasi fino a terra rigorosamente nero o blu scuro? Puzzava da apesatare, varie volte ricordo che per fare i bisogni semplicemente si abbassava e il vestitone copriva tutto, scaricava in loco appunto, e se ne andava.

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