C’è chi la chiama anima, chi preferisce parlare di coscienza, chi la definisce spirito, chi energia.
C’è anche chi rifiuta ogni nome, per non rinchiudere in una parola ciò che, forse, appartiene all’invisibile.
Eppure, qualcosa ci abita.
Ognuno di noi lo percepisce almeno una volta nella vita: un moto interiore che non si lascia spiegare, un’intuizione che non viene dalla logica, una voce silenziosa che ci orienta come una bussola.
A volte la chiamiamo istinto, a volte amore, a volte coscienza.
Altre volte, semplicemente, non sappiamo come chiamarla.
È come la direzione della rondine: nessuno gliela insegna, ma c’è.
Per alcuni, è l’anima: quella “scintilla divina” che ci rende unici e immortali.
Per altri, è la coscienza: la somma delle esperienze, la consapevolezza che cresce nel tempo, un dono fragile che può anche spegnersi.
C’è chi le distingue, e chi – come me – le sente andare “a braccetto”: una che vibra, l’altra che osserva.
Poi c’è la domanda che attraversa i millenni: torniamo? Ci rincarniamo?
La scienza non ha risposte.
La fede ne ha tante, e diverse.
Ma a volte sono proprio i bambini – prima che il mondo li “corregga” – a sussurrare “brandelli” di un’altra vita.
Alcuni parlano di case che non hanno mai visto, di madri che non sono quella che li tiene in braccio, di nomi e luoghi che sembrano usciti da una memoria che non dovrebbe esserci.
Non si tratta solo di aneddoti isolati.
Oltre 2.500 bambini nel mondo sono monitorati costantemente da un ente universitario americano, il Division of Perceptual Studies (DOPS) dell’Università della Virginia, che da decenni raccoglie testimonianze di presunte vite precedenti.
Con rigore scientifico, i ricercatori verificano i dettagli raccontati: nomi, luoghi, date, cause di morte, e in molti casi trovano riscontri sorprendenti.
Piccoli “bug”, come nei sogni: vissuti intensamente, ma che al risveglio svaniscono.
Eppure, resta qualcosa.
Un’immagine sfocata, una sensazione che non ci appartiene, un déjà-vu così vivido da farci tremare.
E ci chiediamo: da dove arriva tutto questo?
E c’è un pensiero che mi consola: che forse la vera livella – quella di cui parlava Totò con il suo genio e il suo cuore – non sia solo la morte, ma la reincarnazione.
Che ognuno di noi, in un percorso eterno, venga al mondo in condizioni diverse:
una volta re, un’altra mendicante.
Una volta atleta, un’altra disabile.
Una volta in Norvegia, una volta in Burundi.
E che proprio attraversando tutte queste esperienze, comprendiamo, cresciamo, impariamo la compassione.
Solo allora sì che si potrebbe parlare di giustizia, di vera uguaglianza:
perché ognuno, prima o poi, conosce ogni volto della vita.
E allora anche il dolore acquisterebbe un senso.
Anche la fortuna non sarebbe più un privilegio, ma una tappa.
E tutto, alla fine, si riequilibrerebbe.
Mio figlio, che ragiona come programmatore, dice:
“A me non tornano i conti. Se le anime si reincarnano, da dove arrivano tutte le nuove? La popolazione mondiale cresce, non dovrebbe esserci un limite?”
Dal mio punto di vista – e secondo tanti scienziati – si pensa che l’universo sia in continua espansione, come un respiro senza fine.
E quindi anche le anime potrebbero non essere un numero fisso: alcune tornano, altre sono nuove.
Come se ci fosse un riciclo eterno, ma anche una nascita di coscienze nuove, magari da stelle lontane, da mondi che non possiamo neanche immaginare.
Non lo posso dimostrare, ma, per quel che vale, da parte mia mi pare di “sentire” che
la vita non è un conto che deve tornare, è un’armonia che si compone da sé.
Eppure, se davvero ogni vita è un passaggio, non siamo forse chiamati a tenere pulita la nostra energia?
Nel pensiero orientale, il karma non è una punizione, ma una traccia:
ciò che seminiamo oggi, lo raccoglieremo altrove, in un’altra forma, in un altro tempo.
Non per vendetta, ma per equilibrio.
Ma allora — direbbe qualcuno — è giusto parlare di colpa?
Chi fa del male, lo fa davvero per scelta?
O, come osserva mio figlio, certe persone possono essere state vittime di una genetica sbagliata, di traumi infantili, di abusi devastanti che li rendono incapaci di discernere, di amare, di contenersi?
E se fosse così? Se nessuno fosse davvero colpevole, ma solo in cammino, come può esistere giustizia?
A volte viene da scoraggiarsi.
Viene da pensare che fare del bene non serva a nulla.
Poi guardo le vite di alcuni uomini meravigliosi, come il cantante George Michael, che nel silenzio ha donato milioni di euro, aiutato persone in difficoltà, sostenuto ospedali, missioni, bambini — senza mai farne pubblicità.
Eppure è morto giovane, stroncato da un infarto.
Dov’è la ricompensa?
Dov’è la giustizia per chi ha fatto tanto, come lui… o come Andy Warhol, che ha vissuto una vita densa, enigmatica, ma con gesti di profonda umanità spesso nascosti sotto la superficie dell’arte?
E allora mi fermo.
E capisco che la giustizia dell’universo non è quella che intendiamo noi.
Non arriva come premio o castigo.
Forse l’unico vero scopo è l’evoluzione.
L’anima non va giudicata, va accompagnata.
E anche chi sbaglia, anche chi sembra perso, è un frammento che sta cercando la via.
E ogni atto di bontà, anche se non salvato dal tempo, lascia un’orma nella coscienza universale.
Forse non siamo anime singole e indipendenti, come ci racconta l’Occidente,
ma gocce di uno stesso mare, come suggerisce l’Oriente.
Forse esistiamo solo per un attimo, come onde che si sollevano alte sull’oceano,
si frangono sullo scoglio, e poi tornano a confondersi nell’acqua da cui sono nate.
Forse siamo come il vapore che sale dal mare, sospinto dal sole,
poi torna pioggia, poi fiume, poi mare di nuovo.
In questo ciclo eterno, non c’è Federico, non c’è Riccardo, non c’è Sabrina,
non c’è un “io” separato per sempre.
C’è una coscienza che assume forme, che vive esperienze, e poi ritorna al tutto.
Come le sinapsi in un cervello cosmico: brevi lampi di connessione dentro un’unica intelligenza.
E allora, la vera livella non è la morte, ma l’appartenenza.
E la vera giustizia non è nel destino che ci tocca, ma nella consapevolezza che, in fondo, siamo uno.
Dentro ognuno di noi convivono due forze: il lupo bianco e il lupo nero.
Uno rappresenta la bontà, la compassione, il rispetto.
L’altro l’egoismo, la rabbia, l’oscurità.
Quale dei due vincerà?
Quello che scegliamo di nutrire ogni giorno.
Nel dubbio, è sempre meglio nutrire il lupo bianco.
Anche se non sappiamo con certezza cosa accadrà dopo questa vita,
scegliere la luce è già contribuire al bene cosmico.
Perché ogni gesto d’amore che nasce qui,
forse — in qualche modo — risuona nell’universo intero.
“E tu, che pensiero hai in merito?
S.S.C. ~ AI