Fino alle scuole medie portavamo i pantaloni corti. Io ero appena passato in seconda, mentre gli altri tre erano già in terza.
Virginio Cancelli, che fumava le Esportazioni, era il più intraprendente. A biglie però non ci prendeva mai, e imbrogliare… beh, ci provava. Non era robusto, anzi, piuttosto esile, con un carattere furbo e guascone. L’ultima volta che lo incontrai faceva il venditore di auto. Ora non c’è più. Ma sapeva sempre come cavarsela.
Luca Lucattini era più robusto e, se serviva, non si tirava indietro con le mani. Anche lui fumava già.
Il più serio e il più bravo a giocare a biglie era Paolo Becattini, che abitava quasi di fronte a casa mia.
Il nostro ritrovo era l’anfiteatro. Finite le scuole, ci davamo alle “spedizioni”, che oggi sarebbero considerate piuttosto rischiose…
Passando dagli “Archi” e dal crinale di San Fabiano, attraverso uliveti e boscaglie, ci addentravamo nel bosco fitto dopo la casa della Panchera – l’ultima prima del nulla – per raggiungere Poti.
In un canalone di un fossato asciutto, vedemmo un granchio verde passare da un ramo all’altro di un querciolo, tenendosi con le sue chele. Non ne avevo mai visti così grandi: era grosso come un piatto. Restammo tutti e quattro estasiati ad ammirarlo, per come si muoveva con grazia e abilità sopra le nostre teste.
Proseguimmo fino alla ramificazione dell’antico acquedotto romano, poco distante dal cimitero di Pomaio. Poi, per la “Corta”, raggiungemmo la nostra meta: l’albergo del Perrotta. Ma andammo oltre, fino alla Fonte Abetina, dove consumammo le nostre provviste: due fette di pane con doppio strato di mortadella, comprata dal Palazzini in Piazza Sant’Agostino.
Un’altra volta salimmo fino in cima a Lignano, il “vulcano aretino”.
Ma l’avventura che più mi è rimasta impressa è quella della piscina di Sinalunga.
Prendemmo il treno della LFI, diretto a Sinalunga. Era marrone, come le vecchie littorine, a due vagoni e elettrico. Il viaggio fu lungo, interminabile per le tante fermate. Alla fine arrivammo alla stazione della cittadina senese, ma la piscina era chiusa: era giugno e non l’avevano ancora aperta, in piena manutenzione.
Non ci perdemmo d’animo. Con i viveri nello zaino, proseguimmo a piedi lungo la strada per Trequanda.
A un certo punto vedemmo un pozzo ai margini di un campo, e al di là un grosso ciliegio selvatico carico d’acqua, oltre un altro fosso.
Io, già dalla partenza da Arezzo, indossavo zoccoli di legno. Dopo aver riempito una bottiglia con l’acqua del pozzo, saltai il fosso, ma persi uno zoccolo in volo e atterrai con il piede nudo sul fondo spezzato di una bottiglia.
Mi ferii profondamente. Con la camiciola, dopo aver lavato la ferita che sanguinava copiosamente, mi fasciai il piede più stretto che potevo e mi misi sulla strada sterrata.
Per fortuna passò un motociclista che mi portò all’ospedale di Sinalunga. Una struttura vecchia, con porte vetrate in stile ottocentesco: sembrava più un salottino che un pronto soccorso.
Mi cucirono la ferita con dodici punti, senza anestesia. Il dottore era un certo Del Corto, parente del marito di mia cugina. Non piansi. Intanto arrivarono anche gli altri tre, a piedi, a torso nudo, con la mia camiciola insanguinata nello zaino alpino – forse appartenuto a un militare della Seconda guerra mondiale.
Nel viaggio di ritorno in treno, mi gustai un salame casareccio, tagliato spesso, tra due fette di pane, come un vero reduce. Dai pantaloni corti.