Quell’anno in convitto mi era stata affidata una classe prima superiore che definire “difficile” era puro eufemismo; 19 ragazzi fra i quali quattro DSA gravi (DSA = disturbi specifici nell’apprendimento), alcuni iperattivi, altri con problemi di salute, altri ancora sbarcati da situazioni al limite della piccola delinquenza, e molti non abituati a confrontarsi con coetanei vivendo a loro contatto per 24 ore al giorno. Insomma una miscela esplosiva con in più il sospetto che, da parte di diversi di loro, ci fosse consumo, o peggio, spaccio di sostanze stupefacenti.
Per far emergere questo stato di cose senza formulare accuse troppo dirette, ma anzi cercando di sdrammatizzare la situazione, occorreva un colpo di fantasia, così, una delle prime volte nelle quali facevamo rientro pomeridiano in classe per preparare i compiti per il giorno successivo, mi presentai loro con in mano tanti piccoli contenitori trasparenti ognuno con relativa etichetta e dopo un preambolo nel quale stigmatizzavo la pericolosità nell’abuso di droghe, anche leggere, invitavo tutti i convittori a fornirmi un loro capello da inserire nel contenitore siglato col proprio nome e da far analizzare presso un laboratorio specializzato. Il costo dell’intera oprazione, che stimai in circa 50 euro ad analisi, sarebbe stato interamente a carico di coloro che sarebbero risultati positivi all’accertamento; “Naturalmente” aggiunsi “potete rifiutarvi di fornire il capello ma io prenderò questo vostro rifiuto come un’ammissione di uso di sostanze proibite da parte vostra”.
Era chiaramente una provocazione, un bluff da parte mia, mai infatti avrei pensato di mettere in pratica una simile azione ma quel che mi interessava era vedere la loro reazione, così iniziai a notare facce stupite da parte di alcuni, preoccupate quelle di diversi altri, finchè si alzò dal banco un ripetente, capelli rasta e faccia da impunito, il quale, giunto vicino a me, mi confessò a voce bassa, ma non così tanto da non poter essere udito dagli altri studenti: “Io ne faccio uso ma solo il sabato e la domenica quando non sono in convitto”.
A quel punto scoppiò, da parte di quelli che avevano sgamato il mio bluff, una risata liberatoria, seguita da uno scrosciante applauso generale.
Il resto dell’anno trascorse tra alti e bassi ma da quella volta in poi, molti dei miei convittori si premunirono di avvisarmi tutte le volte che i loro compagni abusavano di sostanze proibite all’interno della struttura scolastica permettendomi di attuare le dovute contromisure.