C’è un’età nella vita in cui non si corre più.
Non perché non si possa farlo fisicamente, ma perché, finalmente, non si ha più motivo di farlo.
È un momento che arriva in punta di piedi, senza una data esatta, e che porta con sé una consapevolezza nuova:
non si è più obbligati a dimostrare nulla a nessuno.
Quando si è giovani, ogni giorno è una rincorsa: al lavoro, all’amore, al successo, alla bellezza, alla maternità o alla paternità perfetta, al giudizio degli altri.
È una corsa cieca, a volte feroce, in cui si tenta di “costruire” la propria vita come se fosse un castello di carte: basta un soffio di vento e tutto può crollare.
E mentre si costruisce, si spera. Si spera che i figli siano sani, che il partner resti fedele, che il lavoro duri, che la salute tenga.
Si vive di aspettative, sogni e paure.
Tanto, troppo, è ancora da venire.
Poi, senza accorgertene, accade qualcosa di magico:
gli impegni cominciano a calare, le responsabilità si alleggeriscono.
I figli sono cresciuti.
Il lavoro non è più il fulcro.
L’ansia del guadagno, del confronto, dell’apparenza si dissolve, come la nebbia al sole.
“Il dado è tratto”, come dicevano i latini.
La sorte è lanciata, ciò che doveva essere fatto è stato fatto.
E così, paradossalmente, si apre un tempo che può essere più felice.
Perché più vero. Più nostro.
È il tempo della tenerezza verso sé stessi.
Della lentezza non più come svantaggio, ma come privilegio.
È il tempo in cui puoi finalmente chiederti:
“Chi sono io, al di là dei ruoli che ho avuto? Da dove vengo? Dove sto andando?”
E non serve rispondere in fretta.
Basta restare in ascolto.
Nel frattempo, perdonarsi.
Perdonarsi se si rovescia il caffè sul tavolino perché le mani tremano un po’ di più.
Perdonarsi le dimenticanze, le stanchezze, le incertezze.
Perdonarsi, perdonarsi, perdonarsi.
Sempre!
Si riscoprono passioni dimenticate.
Si guarda il mondo con occhi diversi.
Ci si lascia sfuggire una risata più libera.
Si allentano, volente o nolente, i freni inibitori.
Si torna candidi come bambini.
Ci si acconcia i capelli come si vuole, ci si veste secondo il proprio umore, senza più badare al giudizio altrui.
E questo non significa trascurarsi — anzi!
Una volta fatta una bella doccia, sentendosi freschi e in ordine, ci si può anche mettere il maglione del cuore o la camicia stropicciata dal tempo:
l’importante è sentirsi bene, non dimostrare nulla a nessuno.
Si è meno severi con sé stessi, e più indulgenti verso gli altri.
Perché si è capito, finalmente, che non serve giudicare, competere, rincorrere.
Serve solo vivere, con la leggerezza di chi ha attraversato molte tempeste e ora gode della quiete.
E forse — chissà — tocchiamo con mano che, in verità, non siamo qui per produrre o correre dietro al dio denaro.
Forse non siamo nati solo per guadagnare le rate dell’apparecchio ai figli,
ma per contemplare la bellezza del Creato, che è così grande e varia che non ci basterebbe una vita per goderla davvero.
Forse il vero senso è tutto qui: rallentare e ringraziare.
Perché la verità è che la felicità non dipende da ciò che manca, ma da quanto si riesce ad apprezzare ciò che c’è.
E questo non si improvvisa: si impara, si allena ogni giorno.
“Allenarsi alla gratitudine”, anche quando la vita stona, anche quando il tempo pare rubarci qualcosa.
La gratitudine è il segreto sottile, l’arcano silenzioso della gioia vera.
E allora sì, è vero: in certe stagioni della vita, si è più felici, nonostante tutto.
O forse proprio per tutto quello che si è già vissuto.
E che, adesso, non serve più temere.
Basta guardare il cielo.
La luce tra le foglie.
Il volto di un nipote che ride.
Siamo ancora qui, con un bagaglio di vissuto che, anche quando ci ha piegato,
ci ha reso ricchi di esperienze ed emozioni uniche.
Ci ha reso le persone che siamo.
E anche quando la vita ci pone davanti a conflitti che spezzano il cuore —
come quello con un figlio che, pur adulto, ci guarda ancora con gli occhi feriti dell’infanzia —
possiamo solo stringere tra le mani la verità:
non si smette mai di essere figli, ma non si smette nemmeno di essere madri o padri,
e dentro a quell’amore “imperfetto”, c’è comunque un desiderio profondo di bene.
I genitori normali — quelli con un cuore che sente, che sbaglia, che cerca —
non vogliono altro che il bene dei propri figli.
Eppure, a volte, il bene che abbiamo dato non viene riconosciuto,
e dobbiamo imparare anche a perdonarci questo, a conviverci, perché purtroppo è una ruota che gira, oggi è così per me, domani si perpetuerà con i figli dei nostri figli, come è stato anche per i nostri genitori con noi.
Perdonarci di non essere stati il “genitore adeguato” nel film che il figlio si era “scritto dentro”.
Allenarsi quotidianamente alla gratitudine è la vera chiave per la felicità.
Non per la serenità — che è già un grado alto di benessere interiore —
ma proprio per la felicità, che non è un lampo, come qualcuno sostiene,
ma il Graal di una vita piena, senza rimorsi, senza rimpianti.
Anche imparare a “lasciare andare”, senza conflitti, ciò che non è destinato a noi
rende il cammino più leggero, nonostante le difficoltà.
Come diceva il grande imperatore e filosofo Marco Aurelio:
“Non è ciò che ti accade a ferirti, ma il modo in cui lo accogli.
Il peso che gli dai.”
E questo… è già tutto. Tanto!
Buona vita a tutti!
S.S.C.