«Sì… mi serve anche la vernice, quindi mi devi dare altri 25 scudi, che a Milano sono 175 lire, e Cesare dice che sono circa 3.875 euro!»
Così, si racconta ironicamente, Michelangelo Buonarroti da Caprese concluse l’accordo con Giuliano della Rovere, meglio noto come Papa Giulio II, per affrescare la volta della Cappella Sistina. Un’impresa titanica che lo tenne impegnato per quattro anni, dal 1508 al 1512, e che portò a termine completamente da solo.
Noi aretini conosciamo bene il luogo natale di questo genio, i piatti a base di funghi tipici della zona, e — almeno io lo so — che suo padre, afflitto da ludopatia, dilapidò un patrimonio a Firenze, trovandosi poi a fare il gabelliere (esattore delle tasse) nei dintorni.
Caprese, come Pieve Santo Stefano, aveva un’economia prevalentemente agricola e pastorale. Tuttavia, vi operavano anche i bambagiai, artigiani della bambagia, poiché la via del cotone passava dai porti delle Marche e della Romagna. Non tutti sanno che anche la famiglia Fanfani — da cui discese il celebre Amintore — era attiva in questo commercio, allora assai redditizio.
Tornando a Roma, Giuliano della Rovere — futuro Giulio II — era stato un acerrimo rivale di Rodrigo Borgia. Quando quest’ultimo divenne Papa nel 1492 (con il nome di Alessandro VI), della Rovere fu costretto all’esilio in Francia. Alla morte di Alessandro VI, e dopo il brevissimo pontificato di Pio III (un Piccolomini), Giuliano tornò con il sostegno, anche discutibile, di Cesare Borgia, e fu eletto pontefice. Con lui iniziò il tramonto del potere dei Borgia, tra intrighi, scandali e maldicenze.
Giulio II, che arrivò persino a guidare le truppe papali in battaglia, fu un grande mecenate. Portò a Roma artisti straordinari con l’intento di accrescere non solo la bellezza, ma anche la potenza e l’influenza della Chiesa e della città eterna.