Ore… alba. Ci svegliavamo con gli occhi ancora cisposi quando arrivava il mi’ babbo con il furgone dello Scarpificio Lucioli, un Millecento grigio col portellone posteriore, targa AR sotto il 9000, parcheggiato in fondo a via Guadagnoli.
Io e il mi’ fratello maggiore ci sistemavamo dietro, su una panchina nana di legno — anch’essa grigia, in tono col furgone. Una parete con piccola grata ci separava dall’abitacolo: ogni tanto mi alzavo per controllare se mi’ babbo e mi’ mamma c’erano ancora. Il furgone, a dire il vero, ricordava il cellulare delle carceri fermo in piazza Sant’Agostino: forse per quello soffrivo tanto il viaggio, oltre alla scomodità del sedile e alla “distanza di sicurezza” dai genitori.
Il mi’ fratello, che era ingegnoso, s’era costruito una pila portatile e s’era portato una pila di “Topolini” già letti e riletti. Io, però, andavo ancora all’asilo e non sapevo leggere.
Attraverso la grata vedevo scorrere la colonna leopoldina d’Indicatore, col passaggio a livello quasi sempre chiuso. Poi Pieve Maiano, Ponticino, la curva dell’Itac e, finalmente, la nuova colonna leopoldina di Montorsoli. Non finiva mai. Già a Levane, Montevarchi e alle ferriere di San Giovanni mi sentivo fuori nazione.
Il bello arrivava alla salita del San Donato: pensavo al fratello di Bartali e ai mucchi di manne di grano pronti per la battitura.
Firenze, coi suoi viali larghi, per me era New York. Dopo una coda infinita imboccavamo l’autostrada a due corsie: sulla destra l’aeroporto, e — tra un casello e l’altro — finalmente si correva forte, fino a Migliarino.
Ecco la grande pineta: l’aria cambiava, persino il mi’ fratello, distolto dai Topolini (o forse a corto di pile), se ne accorgeva.
Il ponte, i pescherecci, il lungomare… una gioia. Arrivati al Secco, con la pineta e la grande spiaggia libera, iniziavano le peripezie: sandali a due occhi, slip di lana caprina, canottiera e cappellino “a pezzola” a quattro spicchi — però lindo.
Un secchio, una sola retina, due palette e tre biglie di coccio. Il mi’ fratello, però, lasciava tutto a me e continuava a leggere. Sotto lo sguardo vigile della mamma (che badava ai miei sandali “occhialuti”) mi davo alla pesca nel bagnasciuga: catturavo qualche pesce ago e minuscoli cavallucci marini neri, che poi mamma mi faceva ributtare in acqua. Come trofeo, mi restavano solo certe conchiglie da riportare ad Arezzo.
Dopo il consueto pollo freddo con patate — a me toccava sempre la coscia — tre ore a dormire in pineta, anche se sonno non ne avevo. Un ultimo tuffo e via per il ritorno.
Arrivati ad Arezzo, non capivo se la giornata fosse stata divertimento o fatica. Ma una cosa era certa: ero stato al mare!