Nel Medioevo e poi nel Rinascimento, si cercava di inquadrare l’attività di ogni artista in base alle sue attitudini. I pittori, che maneggiavano sostanze particolari per ottenere colori e tonalità, venivano associati ai medici e ai farmacisti, ovvero agli speziali. Coloro che creavano statue o oggetti in bronzo erano accomunati agli artigiani della seta, mentre gli scultori venivano affiancati agli intagliatori del legno e ai muratori.
L’iscrizione a queste corporazioni, accompagnata da cerimonie ufficiali, permetteva di stilare veri e propri registri, una sorta di elenco da cui i committenti potevano scegliere gli artisti per le loro opere. Le botteghe fungevano da vetrine delle varie arti, esponendo stili e tecniche differenti.
Un’arte che ha sempre avuto un ruolo centrale ad Arezzo è stata quella di esaltare i colori nelle opere murarie e sugli intonaci. Questa tradizione affonda le sue radici nella terracotta vetrificata di epoca romana, come i vasi corallini, e già il nonno di Giorgio Vasari, Lorenzo, conosceva tali tecniche quando lavorava a Cortona. Urbino, Sansepolcro e Arezzo, con artisti del calibro di Raffaello, Piero della Francesca e lo stesso Vasari, testimoniano questa maestria cromatica.
Gli affreschi fiamminghi tendevano a presentare colori più scuri, poiché l’intonaco assorbiva il pigmento rendendolo opaco e meno luminoso. Anche Leonardo da Vinci non riuscì a padroneggiare appieno questo segreto, motivo per cui alcune sue pitture murarie non ci sono pervenute.
Questa “alchimia” dei colori deriva da antiche scoperte fenicie: essi avevano scoperto che, cuocendo le loro pentole su massi di nitrato, il calore intenso provocava la fusione del vetro. Questa sostanza, mescolata con olio e applicata sui vasi o sugli intonaci, creava una patina che donava lucentezza ai colori e ne esaltava i contorni.