Ben prima di andare a scuola, sapevo già “far di conto”, come si suol dire. La nostra banda aveva una cassa comune, e io, che ero il più piccolo, dovevo versare 5 lire al mese. Era il 1950. Capì già dopo il terzo mese che i fratelli Renato e Piero, i più grandi, avevano sottratto più di 100 lire a tutta la banda. La cassa era custodita in una scatola da scarpe sigillata, di quelle che si usavano una volta per scarpe da ginnastica o pantofole: leggere, fatte di un unico pezzo di cartoncino ripiegato come una busta da lettere.
I due lestofanti l’avevano aperta dal fondo. Erano esperti, perché il loro nonno produceva quelle scatole in un laboratorio sotto casa. Ovviamente non si poteva accusarli direttamente…
Da allora, numeri e forme diventarono un mio pallino. Già alle elementari, questa vicenda contribuì a sviluppare il mio ragionamento e una rapidità di calcolo notevole. Quando arrivarono i problemi sui poligoni, non avevo rivali, anche grazie alla preparazione per gli esami d’ammissione alle medie impartita da tre grandi maestri: Monti, Manciocchi e Giorni.
Ricordo che il maestro Giorni mi inseguì un giorno fino all’attuale via della Torre Rossa (all’epoca uscivamo dalla parrocchia della Pieve, dove c’era il cinema). Aveva appena finito di dettare un problema e si trovò il mio compito già in cattedra mentre era ancora girato.
Quando arrivò il momento degli esami di terza media, mantenni la mia fama di “risolutore”. Ricordo bene un problema sui solidi: io lo risolsi per tutta la classe, con ben 34 operazioni. Intanto, il mio compagno Massimo completava un’espressione di algebra.
Il problema fu dettato alle 8:45. Io e Massimo consegnammo alle 9:10, dopo aver passato i nostri sviluppi ai compagni, perché anche loro potessero completare il compito.