Arezzo, città d’arte e cultura, terra di Piero della Francesca, patria dell’oro e… del cartello eterno. Sì, perché sulla tangenziale, all’altezza dell’incrocio tra via Setteponti e via Fiorentina, campeggia da mesi un cartello che definire fuorviante sarebbe un eufemismo. Recita un divieto di svolta che, a quanto pare, non esiste più da tempo. Una piccola opera d’arte dell’assurdo che, con la sua elegante inutilità, arricchisce il panorama urbano.
Un’installazione involontaria, un omaggio alla memoria storica? Forse un richiamo alla grande tradizione dell’arte concettuale, dove l’idea di segnaletica viene superata e si entra nel campo della filosofia esistenziale: “Cosa è vero? Cosa è falso? Dove posso girare davvero?”
A quanto sembra, la svolta verso San Leo è consentita, ma il cartello dice il contrario. Un paradosso alla Escher che sfida la logica e il senso comune. Un’opera talmente ben riuscita che nessuno ha avuto il cuore di rimuoverla. O forse, più semplicemente, nessuno l’ha notata. E dire che qualche occhio attento ci sarà pur passato davanti: pattuglie, tecnici della segnaletica, automobilisti, ciclisti, pedoni, piccioni… eppure, nulla. Un silenzio assordante, un’inerzia che grida al cielo (o meglio, alla tangenziale).
E così, mentre in altre città si discute di mobilità sostenibile, piste ciclabili e smart road, ad Arezzo si sperimenta la nuova frontiera del “Cartello Inamovibile”. D’altra parte, se è lì da mesi senza che nessuno lo tolga, una ragione ci sarà. Forse è diventato parte integrante del paesaggio, un simbolo della città, un monito per i posteri.
Oppure, più semplicemente, è solo l’ennesima prova che il controllo del territorio è un concetto molto flessibile. Del resto, perché occuparsi di un dettaglio insignificante come un cartello sbagliato? Non sarà mica una di quelle cose che contribuiscono al decoro urbano e alla sicurezza stradale!
In attesa che qualcuno si accorga di lui e decida di toglierlo (magari nel 2030, quando diventerà patrimonio UNESCO), il cartello rimane lì, impassibile, fiero della sua inutile esistenza. Un simbolo del “ci penseremo domani” all’italiana, un’opera d’arte involontaria che, con la sua presenza, ci ricorda che la vera eccellenza è nell’indifferenza.