La prima cosa che mise in scatola fu un’unghia. Perché le unghie crescono, indiscriminatamente. Perché le unghie nascondono e conservano e, sebbene ci sia chi se le mangia, non sono buone da buttar giù. Perché le unghie feriscono. Perché sembrano forti ma poi, immancabilmente, si spezzano. Ne mise in scatola più di un milione.
Nel frattempo si dedicò a studi scientifici e fu uno di quelli che gli altri chiamano “cervelli in fuga”. Gli altri, quelli che restano, nessuno sa perché.
In una scatola infilò la barba dei suoi vent’anni. Gli sembrava ingiusto che continuasse a crescere. Lei, almeno lei, poteva fermarsi. E la fermò. Ci avrebbe messo anche la faccia, se avesse potuto. Ma non poteva. Non ancora.
Nel frattempo aveva posato i piedi in un laboratorio tutto suo, con tanto di fornelli, provette e alambicchi. L’istituzione universitaria era prestigiosa. C’era il suo nome sulla targhetta affissa alla porta.
Quando infilò nella scatola il suo primo urlo la scatola sembrò resistere ma poi scoppiò. Volarono pezzi di cartone dappertutto, sembrava carnevale.
Era il logaritmo, si disse. Spazzò scuotendo la testa per tutto il tempo e poi riprese a studiare.
Da allora mette in scatola e conserva almeno un urlo a settimana. A volte anche di più, dipende dal lavoro, dagli amici, dagli impegni. Dal tempo che ha per urlare, ché non basta mai.
Ogni tanto ne carica in macchina una ventina, di quelle scatole, e va ad aprirle nel bosco. Non sembra ci siano controindicazioni a parte il movimento di uccelli nell’aria, come dopo un grande botto. Potrebbe tornare perfino utile a qualche cacciatore. Ogni tanto ci pensa.
In ogni modo, a modo suo, è felice.
Lo conoscono come quello silenzioso. Quello buono. Quello posato che non s’arrabbia mai.
Quello che porta a casa le scatole vuote. Nessuno sa perché.
Si segnala che l’immagine è parte di un processo creativo che ha chiamato in causa l’intelligenza artificiale. Da qui il nome della serie “Ai Stories”.