Le radici sono come fili invisibili che ci legano a storie antiche, a terre lontane, a volti che forse non abbiamo mai visto ma che sentiamo come parte di noi. C’è un punto, però, in cui ci chiediamo: quanto di questo passato ci appartiene ancora? Fino a quando è lecito cercare tracce dei nostri antenati e quali ricordi diventano invece un peso, un qualcosa che si perde nel fluire rapido della vita moderna?
Una volta, le storie di famiglia passavano di generazione in generazione, raccontate nelle lunghe serate invernali, attorno a un camino nei casi migliori, oppure in una stalla. Oggi, invece, viviamo in un’epoca in cui le storie personali si dissolvono di fronte ai ritmi serrati della tecnologia e dei media. Non ci sono più i tempi lenti delle lettere che viaggiavano per settimane, colme di attesa e speranza, come quando i nostri antenati emigravano verso terre lontane in cerca di fortuna. Per esempio, durante la carestia del Veneto di fine ‘800, i miei nonni paterni, provenienti da Venezia e dalle terre di Monselice, vendettero tutto per un tozzo di pane ed emigrarono a San Paolo del Brasile. Ebbero 21 figli e solo con gli ultimi 8, tra cui la mia amatissima nonna Tilde, tornarono a Chioggia agli inizi del ‘900, dove nacque poi mio padre nel 1930. Oggi, invece, cerchiamo un po’ di relax dopo una giornata stressante immergendoci nelle piattaforme televisive, nel più assordante mutismo.
Ma cosa resta di queste storie di famiglia quando non ci sono più i racconti, quando non c’è la memoria viva da tramandare? Capita di soffermarsi, qualche volta nella vita, a guardare fotografie di altre epoche, leggere missive con nomi sconosciuti o, per i più fortunati, sfogliare un albero genealogico. Eppure, quei volti, quei nomi, quei rami restano per noi… muti. Forse ci somigliano, forse ci ricordano qualcuno che abbiamo conosciuto, o di cui abbiamo sentito dai genitori qualche curiosità, ma manca il legame diretto con le loro vite, le loro scelte, le loro speranze, le loro disgrazie e fortune.
Eppure, le radici ci ancorano, ci danno una base da cui partire. Anche se non conosciamo la storia dettagliata di ogni bisnonno o trisnonna, il solo sapere che un tempo esistevano e che, in qualche modo, la loro esistenza ha portato alla nostra, può dare un senso di continuità. È difficile, oggigiorno, soffermarsi a riflettere… e magari continuiamo, per un’intera vita, a leggere “biografie su biografie” di illustri nomi che nulla hanno a che fare con la nostra genealogia. Ma fino a che punto queste radici sono utili, in un mondo che corre veloce, dove le distanze tra i familiari si sono ampliate e le storie si disperdono tra mille altri suoni?
Forse, oggi, il valore delle radici non sta tanto nella loro ricostruzione puntuale, ma nella capacità di darci un senso di appartenenza, anche se solo ideale. È come avere un filo sottile che ci lega a qualcosa di più grande, anche se ormai la trama di quel filo è sfilacciata e non riusciamo più a riconoscere chiaramente ogni nodo. E forse, questo senso di appartenenza ci basta, anche se nel quotidiano non ci sono più racconti attorno al fuoco, ma schermi che ci portano lontano dalle storie di famiglia. Penso che, una volta raggiunta la pensione, ognuno di noi avrebbe il diritto e il dovere di scrivere la propria storia, da lasciare in eredità ai propri discendenti. Così, potremmo evitare di sentirci come foglie al vento e, con un pizzico di fortuna, imparare qualcosa dalle esperienze dei nostri avi”.
* S.S.C.*