Ai miei tempi, quando la corrente si chiamava 125, e se t’attaccavi pigliavi ‘na scossa che ti faceva ballà come Celentano ma senza murire… a meno che unn’eri dentro a ‘na vasca piena d’acqua salata. E lì… pace all’anima tua.
C’avevo sì e no cinque anni, fresco di botte dalla mamma, che mi buttai dalla terrazza co’ due ombrelli in mano, tipo paracadutista della domenica. Finì nell’orto, per fortuna vangato fresco e inzaccherato da un acquazzone che manco Noè…
E lì, tutto inzaccherato e bagnato, venni usato come conduttore umano — sì, tipo filo de rame — da mio fratello, ‘na specie di piccolo Frankenstein de’ poveri, che a otto anni già costruiva radio a galena e faceva esperimenti che nemmeno la Nasa. In mano una lampadina, nell’altra un bicchiere d’acqua con dentro i fili della 220 (sì, all’epoca si giocava così…). Una mano mia, una sua, e via… la corrente faceva girotondo fra noi.
Cavia volontaria, perché avevo cieca fiducia nel genio di casa: due anni prima, per l’anniversario di matrimonio dei nostri genitori, aveva costruito una scatola magica con lo specchio e la lente, e mi proiettò l’immagine della mamma su una parete per due giorni… Madonna, ancora ci penso e mi commuovo.
Avevo la mia lampadina portatile, con quelle pile quadrate a linguine di rame della “Superpila”, e dopo un po’ mi ero già messo a smontare e rimontare interruttori in porcellana come un elettricista del dopoguerra. Il casino era quando c’erano due interruttori per la stessa luce… ma alla fine ce la facevo. Che soddisfazione!
E oggi? Oggi passano ste auto elettriche silenziose come ladri. Nemmeno un trrrrr, trrrrr, trrrrr, come facevamo noi con il cartoncino attaccato ai raggi della bici con la molletta. Quello sì che era rumore di potenza, roba da far girà la testa alle ragazzine!
Queste invece passano zitte zitte… e ti mettono sotto senza nemmeno un “permesso!”. Ma almeno sonasse, ‘sta macchina! Fai un beep, una scorreggetta, qualcosa… ché se no ci si crepa davvero.