Tra i ricordi più vivi della mia casa ad Alassio c’è lei, Olga, una nonnina russa dolcissima, con uno sguardo profondo color lago artico e una voce calma, che sapeva sempre come farmi sentire supportata e meno sola. Aveva 96 anni quando l’ho vista per l’ultima volta, al ballatoio del nostro attiguo balcone. Oggi avrà circa 100 anni e l’anno scorso, quando tornai ad Alassio per un raid, chiesi informazioni ed era ancora viva, anche se, dissero, la lucidità ormai l’aveva, perlopiu’, abbandonata. Mi manca. Mi manca la sua presenza discreta ma luminosa, la sua capacità di esserci senza invadere, quel suo modo di accogliermi e accarezzare la vita con gentilezza, nonostante tutto quello che aveva vissuto.
Da decenni, Olga andava nelle scuole a raccontare la sua storia. Una storia che iniziava quando era poco più che un’adolescente, durante i terribili anni della Shoah. Era nata, mi par di ricordare, nel 1925, e aveva tra i 16 e i 20 anni quando fu deportata in un campo di concentramento. Non raccontava spesso i dettagli, ma i frammenti che le erano rimasti scolpiti bastavano a creare un quadro di sofferenza che non si può dimenticare. Ogni volta che parlava con i ragazzi, lo faceva con una dignità e una forza che colpivano chiunque la ascoltasse.
Mi chiedo spesso cosa significhi, davvero, ricordare. Ascoltando Olga, o leggendo le storie di tanti altri sopravvissuti, mi rendo conto che il problema non è più la mancanza di conoscenza. Sappiamo, conosciamo, abbiamo visto i documentari, letto i libri, ascoltato le testimonianze. Eppure, nonostante tutto questo, l’odio continua a trovare spazio. La Shoah avrebbe dovuto insegnarci che l’indifferenza è il terreno fertile dell’orrore. Ma oggi, in un mondo che sembra di nuovo dividersi tra chi ama e chi odia, tra chi comprende e chi giudica, mi chiedo se abbiamo davvero imparato qualcosa.
Pensare a Olga mi fa riflettere su come la memoria possa essere paradossale. Da una parte, è potente e necessaria: ricordare ci permette di mantenere viva la consapevolezza di quello che non deve più accadere. Dall’altra, è fragile e spesso tradita: sappiamo, ma non sempre agiamo. Le sue storie non erano diverse da quelle che ho sentito da tanti altri sopravvissuti, eppure ogni volta che parlava sentivo il peso di un grido che non si spegne mai, che ci interroga, ci chiede conto delle nostre azioni e delle nostre scelte.
E poi penso al presente. L’attacco del 7 ottobre, il riaccendersi dell’antisemitismo, le guerre che devastano popoli interi. Non possiamo nascondere che oggi l’odio si alimenta da entrambe le parti, che le risposte spesso superano i limiti della proporzione, che l’empatia viene soffocata dalla politica. Lo dico con timore, sapendo che queste parole possono attirare critiche, ma la memoria della Shoah non deve trasformarsi in una giustificazione per ignorare altre sofferenze. Olga stessa, nonostante la sua storia, parlava con dolcezza di pace e giustizia, mai di vendetta.
E poi c’è la bellezza. Sapere che a Kiev, sotto le bombe, i teatri sono pieni, mi riempie il cuore di speranza. Mi ricorda che, persino nei momenti più bui, la cultura e l’arte resistono, proprio come nei campi di concentramento, dove c’era chi cantava, chi scriveva poesie, chi trovava un frammento di bellezza per non perdersi del tutto. Forse è questo il vero significato della memoria: non solo ricordare chi ha sofferto, ma trasformare quella sofferenza in una scelta di vita, in un impegno quotidiano per preservare ciò che rende l’umanità degna di esistere.
Mi manca Olga. Mi manca la sua presenza, il suo esempio, il suo sguardo che sembrava sapere tutto, senza bisogno di dire troppo. Non posso visitarla nella RSA, dove ormai la lucidità l’ha abbandonata. Ma ciò che lei mi ha insegnato – attraverso le sue storie, il suo modo di vivere, la sua straordinaria forza – resterà con me. È a lei, e a tutti quelli come lei, che dobbiamo la responsabilità di ricordare. Ma ricordare, da solo, non basta. Dobbiamo trasformare la memoria in azione. In gentilezza. In empatia. In coraggio. Perché il vero tributo a chi ha sofferto è fare in modo che la loro sofferenza non sia stata vana.
S.S.C.
Bellissimo articolo! Hai colto nel segno il messaggio di Olga. Ricordava e trasmetteva quello che lei aveva vissuto in prima persona, ma senza odio, né desiderio di vendetta e con la speranza che un giorno la pace e la giustizia avessero trionfato sul male. Buona vita