Burraia, anno 1959: le tre casette
Sui prati della Burraia, quasi al crinale, si trovavano tre capanne di legno di tre metri per tre. Una di queste, ben mantenuta, aveva vetri sull’unica finestra, un tetto robusto e forse impermeabilizzato con vernice per barche. Era la casetta che i genitori di un amico di scuola di mio fratello avevano preso in affitto.
Non c’erano né bagno né acqua corrente, né luce. Tuttavia, la casetta disponeva di una stufa economica con un deposito per l’acqua calda accanto al tubo del camino, cerchi concentrici di ferro usati come fornelli, e un piccolo forno vicino alla camera di combustione.
Quella giornata non prometteva niente di buono: vento, nebbia e nevischio gelato ci sferzavano il viso. Io, il più piccolo, avevo tolto gli occhiali e il mio volto era quasi tumefatto dai granuli di ghiaccio. I “grandi” avevano deciso che avremmo pranzato presso il vecchio rifugio del CAI. Oltre a me c’erano il Dedo, un anno più grande, e altri sei ragazzi dell’ultimo anno delle superiori.
All’epoca, alla Burraia c’erano lo skilift del Gabrendo e, più in là, una manovia che attraversava i prati. Superata la manovia, dopo circa cento metri, si trovavano le tre capanne. Il rifugio del CAI era gestito da Beppe Sodo, mitico custode, cuoco e ottimo sciatore. Da piccolo, Beppe mi portava a dar da mangiare a una vecchia lupa, quando alla Burraia esisteva solo il vecchio rifugio.Continua a leggere
Un faggio contro il ginocchio
Febbraio 1962. Ero partito con il trenino della Sinalunga, portando con me uno zaino dell’ultima guerra, forse appartenuto alle truppe inglesi, insieme a sci, racchette e scarponi Nordica di cuoio, con i lacci legati a tracolla.
Al capolinea di Pratovecchio Stia, dopo quasi un’ora e mezza di viaggio, aspettai la SITA, l’autobus che mi avrebbe portato al Passo della Calla. Era un venerdì con tempo e neve splendidi: avevo saltato la scuola il sabato. Arrivato all’albergo verso le otto, sotto il chiarore della luna che illuminava il bianco della neve, mi fecero dormire in un letto a castello nella cameretta insieme a Mario, il meccanico dello skilift.Continua a leggere
Un sogno fisico
Talvolta si può immaginare che la materia sia un tutt’uno, un’unica entità. Da bambino osservavo i “bullini”, piccole bollicine con alette e altre bollicine. Guardando il cosmo, mi sembrava di trovarmi dentro un “bullino”, e immaginavo chi potesse tirarmi fuori, come un getto o uno spruzzo.
Chi mi avesse tirato fuori, pensavo, sarebbe stato a sua volta dentro un “bullino” più grande, ponendosi lo stesso quesito. Cercavo spiegazioni da mio fratello maggiore, che mi introduceva ai concetti di atomi, neutroni, protoni ed elettroni. Viaggiavo con la mente verso l’interno di questo “bullino”, ma ogni volta si apriva un nuovo universo, e mi perdevo nell’infinità.
Quando avevo la febbre, il sogno mutava. Percepivo forze ostili, come una marea torbida e collosa che ostacolava il mio vagare. Al contrario, se ero tranquillo, mi sembrava di galleggiare dolcemente in un mare limpido, trasportato dalla brezza. Mi sentivo immerso in un’acqua azzurrina e fluida, senza mai raggiungere un punto d’arrivo.
Al risveglio, mi sentivo microinsignificante, parte di un insieme infinito. Per ritrovare conforto, spesso correvo in cucina alla ricerca di un po’ di salame, la mia droga per tirarmi su.