Guillaume Marcillat giunse in Italia al seguito del maestro vetraio Claude, chiamato da papa Giulio II per realizzare le vetrate del Vaticano. La sua vita prese una svolta inaspettata quando, in Francia, fu testimone scomodo di un delitto e venne costretto a entrare nell’ordine dei Domenicani.
La sorte volle che il suo maestro morisse improvvisamente, lasciando a Marcillat il compito di completare i lavori a Roma. Lo fece in modo così eccellente che lo stesso papa lo premiò con una bolla che gli permise di sciogliere i voti monastici.
Successivamente, seguì il cardinale Silvio Passerini a Cortona, dove realizzò le vetrate del Duomo. Nel 1518 si trasferì ad Arezzo, città in cui avrebbe lasciato un segno indelebile. Qui lavorò alle vetrate del Duomo e alla basilica di San Francesco, mentre le opere eseguite nella chiesa di San Domenico andarono purtroppo distrutte.
Nel Duomo di Arezzo possiamo ammirare ancora oggi la sua abilità: la scena della Genesi, putti, ornamenti floreali e affreschi che richiamano lo stile di Michelangelo. Tuttavia, nelle vetrate, Marcillat non ebbe rivali. Giorgio Vasari, nella sua celebre opera Le Vite, dedica ampio spazio a Marcillat, lodando l’uso sapiente del colore caldo e brillante, unito alla perfezione del disegno, capace di adattarsi alle variazioni della luce esterna.
La vita del maestro si concluse ad Arezzo nel 1529, all’età di 54 anni. Trascorse gli ultimi undici anni della sua esistenza nella città toscana, dove si racconta che fosse un grande appassionato del salame toscano. Pare, infatti, che studiasse attentamente i colori del salame e dei suoi ciccioli di grasso, traendo ispirazione per le sue velature turchine, che richiamano i riflessi di luce nell’aria fresca.
Frequentava spesso una rinomata osteria in via di San Vito, gestita da un certo Memmolo, dove si serviva il vino del podere del Pancherò. La passione per il buon vino e il cibo gli fu fatale: morì di cirrosi epatica nel 1529.