Come dei bischeri, in sei, ci facemmo portare con una barca a motore fino alla punta del promontorio a scogliera, dove il golfo della California messicana si apre nel Pacifico.
Concordammo che dopo 3 ore ci sarebbero venuti a riprendere. Passarono invece più di sei ore, relegati in un lembo di sabbia largo appena due metri, ai piedi di una scogliera alta più di 50 metri. Scalare quella parete sarebbe stato impossibile senza corde e almeno tre anni di corsi di alpinismo.
L’alta marea ci costrinse ad abbandonare quel piccolo tratto di spiaggia e ad arrampicarci sulle rocce per almeno tre metri. Le onde, che sbattevano contro la scogliera, ci avevano già zuppato da capo a piedi. Quando finalmente si ricordarono di noi disgraziati, era già l’imbrunire…
Arrivò quella maledetta barca. Le tre donne che erano con noi piangevano e pregavano, ma i due noleggiatori non osavano avvicinarsi troppo per paura di sbattere con la barca contro le rocce.
Avevo sopra di me uno sperone. Mi feci lanciare una cima e la feci tenere in tensione con il motore della barca, agganciandola saldamente allo sperone. Come in un vero corso di sopravvivenza, con mani e piedi ci calammo tutti lungo la corda verso la barca. Io fui l’ultimo. I due indigeni ridevano, ma quando salii a bordo, mi feci dare un knife (coltello), tagliai la cima e dissi, indicando la corda: “Tomorrow, return to pick it up again!”.
A quel punto smisero di ridere, e in spagnolo lanciarono qualche puta ai parenti…