Dentro ciascuno di noi vive un’ombra, un retaggio invisibile che Eckhart Tolle* definisce “il corpo di dolore.” È una presenza latente, pronta a emergere nei momenti più difficili, quando emozioni intense come rabbia, paura o tristezza si impadroniscono della nostra mente e del nostro corpo, a volte anche senza una ragione apparente. Questo bagaglio emotivo accumulato nel corso della vita, e forse anche oltre, può essere tramandato tramite il DNA, da qualche nostro avo sfortunato, o derivare da una passata reincarnazione. Ognuno segua il proprio sentire su questo ragionamento. Si alimenta di esperienze negative, costruendo un ciclo che sembra impossibile da spezzare.
Ma cosa succede se, invece di respingerlo o negarlo, impariamo ad ascoltarlo? Il corpo di dolore non è un nemico, anche se può sembrare tale. È una parte di noi che chiede di essere vista, accolta, guarita. Ogni emozione repressa, ogni ferita non affrontata trova un rifugio lì, accumulandosi nel tempo come acqua stagnante in un vaso colmo. Eppure, riconoscerne l’esistenza è già un primo passo verso la liberazione.
Tolle suggerisce che il corpo di dolore prospera nell’identificazione. Quando ci lasciamo sopraffare dalle emozioni senza consapevolezza, diventiamo tutt’uno con la sofferenza, dimenticando che siamo altro. È qui che entra in gioco il potere del presente, l’arte di osservare senza giudizio ciò che accade dentro di noi. Non siamo la nostra rabbia, non siamo la nostra tristezza: siamo lo spazio in cui queste emozioni accadono.
La consapevolezza disinnesca il corpo di dolore, come un fascio di luce che dissolve l’oscurità. Non si tratta di un processo immediato, né lineare: richiede gentilezza, pazienza e la volontà di affrontare il nostro vissuto, anche quello più scomodo. Ma ogni passo verso la guarigione ci restituisce energia, forza e, soprattutto, libertà.
Riconoscere il corpo di dolore non significa solo lavorare su noi stessi. È un atto che si riverbera all’esterno, nei nostri rapporti, nelle scelte di vita. Ogni ferita guarita è un peso in meno che portiamo nel mondo, un gesto di compassione verso chi incontriamo. La sofferenza non affrontata si trasmette; quella trasformata diventa invece fonte di luce.
Allora, forse il corpo di dolore non è solo un fardello, ma una chiave per comprendere la nostra umanità e aprirci al cambiamento. E nel farlo, scopriamo che la sofferenza non è mai fine a se stessa: può essere il terreno fertile da cui germoglia una nuova consapevolezza, quella del perdono. In fondo, lasciar andare significa anche proprio questo: perdonare! Perdonare noi stessi per non aver raggiunto, nonostante gli sforzi compiuti, gli obiettivi che ci eravamo prefissati, e perdonare gli altri per le ferite ricevute.
Penso che, dopo “mamma,” la parola più bella sia “perdono” e che da lì si possa riprendere il nostro percorso purificati.
S.S.C.
Nota:
*Eckhart Tolle è un autore e insegnante spirituale noto per libri come “Il Potere di Adesso” e “Un Nuovo Mondo,” in cui esplora temi legati alla consapevolezza, al presente e alla trasformazione interiore.