Io e lo sci – Parte 1
Da bambino, mi ritrovavo a sciare con un’attrezzatura piuttosto rudimentale: un K-Way rosso con marsupio anteriore, pantaloni in mista lana con passanti elastici sotto i piedi, scarponi a punta quadra semi-basculanti, guanti di lana caprina a un dito e una papala con pon-pon lungo. Tutto, tranne il K-Way, era opera della nonna Gioconda.
Gli sci erano un accrocchio di fortuna: privi di lamine, probabilmente derivavano da due paia differenti, con attacchi da adulto a ganasce Kandar e una molla troppo lunga che dovevo torcere per agganciarla al tacco dello scarpone. Quando sfuggiva, mi frustava dolorosamente le mani. La soletta era verniciata a pennello con un blu legnoso, mentre le racchette erano di bambù, con rondelle e laccetti di cuoio.
Partivo dal rifugio CAI della Burraia, diretto verso la manovia. Aggrapparmi alla corda, sempre troppo alta per me, era un’impresa. Viaggiavo in sospensione finché crollavo e gli sci si sganciavano, costringendomi a cercarli tra i faggi. Talvolta, con l’aiuto di qualche anima gentile che mi sorreggeva, riuscivo a raggiungere la cima. Dopo una giornata di tentativi, al massimo completavo due o tre discese.
La sera rientravo completamente bagnato: mutandoni, pantaloni, camiciola, tutto fradicio. I guanti erano logorati dalla corda e dalle molle. Mi avvolgevo in una coperta accanto alla stufa a legna, già pronto per la prossima domenica di avventure. Era il 1953.
Io e lo sci – Parte 2
Nel 1955, la svolta: venne costruito il primo skilift con asta lunga, modello francese. Raggiungeva i 1600 metri del Gabrendo, ma io, troppo leggero, non riuscivo a tendere la molla. Restavo sospeso nel vuoto finché non mi aiutavano amici come Misesti Ivo, Ilio Angiolini e Luigi Lucherini, che mi permettevano di appoggiarmi alle loro ginocchia.
Affrontavo il Gabrendo, sfidato dal vento incessante. Tra le discese, preferivo un canalino tra i faggi, meno ripido ma più tecnico. Tuttavia, le molle lunghe degli attacchi erano un problema: se forzavo troppo, gli sci si sganciavano. Una volta, uno sci sparì tra i faggi. Tornai al rifugio piangendo, ma fortunatamente uno sciatore lo trovò e me lo riportò. Non sapevo se ringraziarlo o maledirlo per l’agonia subita.Continua a leggere
Le prime gare all’Abetone: io e lo sci (Parte Terza)
Ormai prendevo da solo il trenino fino a Pratovecchio-Stia e poi aspettavo l’autobus il sabato sera. Dopo le 20, arrivavo dal Passo della Calla, al buio, fino al nuovo albergo della Stif. C’erano solo due camere con un soppalco, sempre prenotate. Gli altri avventori, come me, dormivano nel sacco a pelo accanto alla grande stufa. Se arrivavo nel primo pomeriggio, trovavo invece posto nei cameroni del vecchio rifugio CAI, dove l’indimenticabile Beppe Sodo gestiva l’accoglienza.
La domenica iniziavo a sciare all’apertura degli impianti e, senza tregua, facevo ininterrottamente 30-40 discese, a seconda delle code.
La famiglia Borri portava spesso il figlio Piero, un ottimo sciatore, ai campionati toscani. Una volta, nel 1959, mi portarono con loro a partecipare nella categoria Ragazzi (14 anni). Avevano prenotato al “Toscana”, un albergo quasi in fondo alla discesa verso la partenza del vecchio slittone. C’era ancora la seggiovia delle Motte, con i due campi scuola, dove qualche anno dopo avremmo fatto una gara di slalom speciale.Continua a leggere