Certe notizie sono troppo dure da contenere nel cuore. Restano lì, come un sasso nell’anima.
Una madre in preda alla depressione “post-partum” che getta la sua bambina di sette mesi dalla finestra. Non si può accettare. Non si può capire, che almeno ci aiuti, ci costringa a riflettere.
In questi casi, il primo impulso è il giudizio. Ma dopo lo sdegno, dopo l’incredulità, arriva la domanda più difficile: dove era la rete che avrebbe dovuto sorreggere questa madre? Dov’erano le mani tese, l’ascolto, l’attenzione?
Chi l’ha vista svanire piano piano nella stanchezza, nel senso di inadeguatezza, nell’ombra profonda di una mente che si frantuma sotto il peso di un compito immenso?
Mi domando spesso come abbiano fatto le nostre nonne. Donne che partorivano in casa, spesso una volta all’anno. Donne che non conoscevano la parola “depressione”, ma che vivevano circondate da una comunità: zie, sorelle, vicine, figli più grandi che aiutavano coi più piccoli. Una catena silenziosa, fatta di piccoli gesti e fatica condivisa.
Oggi siamo madri sole. Anche quando non lo sembriamo.
Sotto l’apparenza di una famiglia normale può celarsi una solitudine tremenda.
Una donna che non dorme da settimane, che allatta senza sosta, che si sente sbagliata perché non riesce a sorridere come nelle pubblicità. Una donna che ha paura di dirlo, per non essere giudicata. Che teme che, se lo dice, le portino via il figlio.
E allora tace. E mentre tace, crolla.
Questo non è un testo per assolvere o per accusare. È solo un piccolo appello al buon senso, alla sensibilità, alla prevenzione.
Perché una madre in difficoltà ha bisogno di qualcuno che la guardi negli occhi e le dica: “Ti vedo. So che non è facile. Sei stanca, sei fragile. Ma non sei sola.”
Ha bisogno di uno sguardo che non sia superficiale. Di un marito che non neghi. Di un medico che ascolti. Di una famiglia che si fermi a osservare, che non ignori i segni, che non “giri la testa dall’altra parte”.
Perché una madre può cadere. Ma se intorno a lei c’è rete, c’è calore, c’è ascolto… può anche rialzarsi.
E se davvero vogliamo cambiare qualcosa, non aspettiamo più il dramma per accorgerci che mancava un abbraccio. Che mancava una sedia vuota su cui farla sedere. Che mancava il tempo per chiederle “Come stai davvero?”.
Non aspettiamo il telegiornale per scoprire che l’amica, la collega, la sorella… stava soffrendo.
Perché un figlio si aspetta una madre che lo ami, ma una madre si aspetta – e merita – un mondo che la custodisca.
E allora domandiamoci, ognuno in silenzio: quante madri, oggi, sono appese a un filo invisibile?
E soprattutto: siamo pronti a tenderle una mano prima che quel filo si spezzi per sempre?
S.S.C. ~ AI