Non era la gru di Chichibio, celebre protagonista di una novella della sesta giornata del Decameron di Boccaccio, ma una povera gallina di un contadino. Razolando nell’aia, per sua sfortuna – volutamente o meno – si ritrovò con una gamba mozzata da una falce fienaia.
Non ci perdemmo d’animo. Il figlio del tuttofare, che faceva l’elettricista, vendeva bombole di Butangas e si arrangiava anche come mezzo idraulico, corse a prendere un rotolo di nastro isolante. Intanto, noi tenevamo ferma la bestiola. Gigino, che conservava come souvenir gli stecchetti del gelato “Gigante Stocchi” da 20 lire, li tirò fuori dal suo taschino. Con grande impegno, tagliammo i bastoncini a misura e, usando il nastro isolante – quelli di una volta, che sembravano fasce gessate – avvolgemmo tutto con cura. I quattro legnetti, ben fissati, andarono a formare una sorta di protesi rudimentale, saldamente legata fin sopra la coscia della povera gallina.
L’animale sopravvisse, ma con qualche difficoltà. Iniziò a fare uova sempre gallate, perché non poteva “covarle” come avrebbe dovuto. Non aveva il tempo di difendersi dal maschio e, purtroppo, visse poco. Però, quello fu il mio primo intervento ortopedico su un essere vivente.
Erano tempi in cui i giocattoli non esistevano, o quasi. Alla festa della Chiesa arrivava il chiccaio con le sue rarità, ma noi avevamo altro: le fionde, gli scoppietti e i bullini. Passavamo il tempo con le lucertole, le serpi e il bosco. Tempi semplici, ma pieni di storie da raccontare.