Durante le serate in campagna, davanti al camino, le donne raccontavano storie, mentre noi citti, ai lati degli alari, su una panca nana di legno, stavamo ad ascoltare intimoriti. Intanto, i vecchi giocavano a scopa al lungo tavolone, con il fiasco di vino come quinto giocatore.
La lampadina da 60 candele illuminava appena il cucinone e il tavolo. La mezzina di rame era sopra il lavandino di pietra, ma nessuno si avvicinava a bere, tanto era il freddo in quel cantone. Gli scaldini erano pronti per riscaldare l’interno delle coperte e dei coltroni da 10 chili.
La Margherita era una delle più anziane, insieme alla Maria. Tutte le donne, con ferri e uncinetti, stavano in semicerchio a lavorare, al bagliore della fiamma, mentre una, con un uovo di legno, rammendava calzini e toppe.
Rosa raccontava che una donna al Vignale “basso” non si capacitava di come il suo cittino di pochi mesi non ingrassasse, fosse sempre affamato e sembrasse deperito. Inoltre, la sua culla era sempre sporca di vomito. L’avevano portato dal dottore, ma il bambino era sano, e non si spiegavano la situazione. Una sera, la donna, dopo aver allattato il citto, lo ricollocò sazio nella culla, lasciando come al solito una candela sul comodino e fece finta di uscire dalla camera.
Intanto, noi ragazzi, già impressionati, ci stringevamo l’uno contro l’altro. La donna si accorse che una serpe usciva da sotto l’armadio accostato al muro. Era quasi fosforescente per quanto erano chiare le sue squame. La serpe raggiungeva la culla, infilava la sua esile coda tra le labbra del citto, lo faceva vomitare e si cibava del latte versato con il rigurgito. La serpe fu catturata e uccisa, e il bimbo, da allora, non pianse più dalla fame!
Ma quello che raccontò la Rina mi rimase impresso, anche perché sapevo che un cugino di mia nonna era un gesuita esorcista. Un giovane, in età quasi da matrimonio, era caduto in una forte depressione e aveva tentato di uccidersi. Lo avevano legato mani e piedi al letto, un letto di bandoni con dipinte baite montane e montagne piene di neve, i cui luccichii di madreperla sembravano stelle nella notte.
Avevano provato con il prete e l’acqua santa, ma non riuscivano a riportarlo alla vita normale. Dormiva e fissava il soffitto e i travicelli. Era ormai diverso tempo che non mangiava; lo facevano bere tenendolo fermo in tre e tappandogli il naso. Poi, il guardia, Lillo d’Agazzi, portò in quella casa una bottiglia di tisana d’iperico, e dopo una settimana di cura, il giovane riuscì a parlare. Si rivolse al padre e disse: “Non mi fate bere più questa schifezza, che fa schifo!”
Il padre, emozionato, disse: “È guarito!” E così fu.
Meno male che dopo andavo a letto con il prete in mezzo a mio nonno e mia nonna. Quando lo toglievano, venivo ustionato dalle lenzuola di lino riscaldate e sommerso dal peso del coltrone, ma al sicuro, in mezzo ai camicionati nonni!