Eravamo nel terzo dei sedici container predisposti come rifugio antiatomico. Nove persone, che al momento del bagliore apparso al di là della collina di Santa Maria, verso ovest, si trovavano a transitare davanti al nuovo stadio di Arezzo.Le autorità, dopo l’aggravarsi della situazione in Polonia, avevano disposto per la città di Arezzo 27 rifugi simili. Uno di questi si trovava in Piazzale Gramsci: una struttura a forma di croce celtica, con tre quadrati per ogni asse, uniti da soffietti e dotati di aeratori sintetici autonomi, alimentati ad azoto e ossigeno liquido, con una riserva sufficiente per almeno un mese.
Eravamo ormai allenati e preparati a ogni evenienza. La porta ermetica si apriva a distanza, in base ai segnali emessi dal centro di comando della difesa nucleare comunale. Restammo in attesa di informazioni tramite i monitor predisposti, osservando attraverso le finestre telecamerate cosa stava accadendo fuori.Continua a leggere
Un giovane tifoso, passato poco prima davanti a noi con la sua bici da donna, non era riuscito a sottrarsi alle radiazioni. Pedalava ancora, veloce, verso i nostri container, quando improvvisamente la sua gamba destra si staccò e rimase incastrata tra la ruota posteriore e il pedale. Era ancora tenuta unita al corpo dai pantaloni, ma non più collegata all’anca. Fu un susseguirsi di distaccamenti del corpo, fino a quando la testa cadde sull’asfalto, separata dal tronco. Gli occhi schizzarono fuori dalle orbite, legati al capo solo dal nervo ottico, disteso sul selciato…
Chi eravamo noi?
Veronica e Laura erano due giovani donne, in età da marito, che tenevano alla linea e stavano correndo vicino al rifugio, indossando tute elasticizzate. Veronica era fidanzata con Daniel, un noto avvocato; Laura, invece, era ancora alla ricerca di un compagno. Poi c’erano Roberto e Daniela con il loro cane lupo, Tobia; Marinella, madre di un esordiente dell’Arezzo, arrivata lì per parlare con l’allenatore del figlio; Mauro e Lorenzo, due tifosi; e infine io, l’unico ultracentenario. Nove in tutto, contando anche il cane.
Dopo le prime ore di smarrimento, ci collegammo al canale delle istruzioni per l’uso del rifugio. Apparve un cartone animato con occhi a mandorla che ci spiegò la disposizione dei container: uno era adibito a cucina, due al refettorio, uno a palestra, uno ai bagni e alle docce per uomini, uno a quelli per donne. Sei container erano destinati ai dormitori, uno alla sala riunioni, uno all’ospedale e alla sala operatoria, e uno al controllo della struttura.
Notiziario nei containers
Due bombe erano state lanciate dagli Houthi yemeniti con missili di ultima generazione, forniti da Putin. Una aveva colpito Perugia, l’altra Siena. I morti nelle due città erano moltissimi, come anche ad Arezzo, sebbene in altre città italiane la contaminazione fosse stata meno grave.Continua a leggere
Dopo alcune ore, una trasmissione televisiva mostrava un servizio sulla moda a Milano, dove le sfilate erano riprese. Le telecamere avevano immortalato Danilo, seduto con una modella ungherese sulle ginocchia. Alla vista del fedifrago, Veronica uscì furiosa dal refettorio e, contro ogni consiglio, si recò nel container numero uno. Uscendo dalla porta ermetica, il suo corpo si disintegrò immediatamente: le radiazioni, scontrandosi con quelle di Siena e Perugia, avevano generato una contaminazione letale.
Laura, rimasta sola, accettò il nostro invito a unirsi al nostro tavolo.
Il giorno seguente, un mezzo bianco della nettezza urbana venne a ripulire la strada e ci comunicò tramite videotelefono che fuori c’era un odore insopportabile. Le celle dei misuratori d’aria erano andate in tilt.
Passarono due settimane. Finalmente arrivò un autobus dell’Arezzo, guidato da un conducente in tuta protettiva. Ci chiedevamo se la squadra si fosse salvata o meno.
Il terzo giorno
Erano passati due giorni e due notti da quando la porta ermetica del container numero uno si era aperta. Laura e Veronica piangevano ancora: una per la lontananza del fidanzato, rinchiuso in un rifugio a Milano; l’altra, convinta della morte dei suoi cari, che non rispondevano al telefono.Continua a leggere
Il più esasperato era Roberto, che doveva portare fuori Tobia, ma desisteva ogni volta. Quando finalmente si decise, vide arrivare un carro armato bianco lungo il viale. Attraverso un collegamento video, gli operatori ci informarono che il mezzo raccoglieva i resti dei cadaveri per portarli all’inceneritore, trasformandoli in metano per alimentare i rifugi. Ci promisero anche della tachipirina per mitigare gli effetti delle radiazioni.
Roberto abbandonò l’idea di uscire con il cane, ma Daniela, stufa delle sue scuse, lo cacciò fuori dal container. Decidemmo di accoglierlo al nostro tavolo e ci mettemmo a giocare a carte, cercando di sopravvivere a quei giorni di orrore.