Al ritorno da un viaggio in America, in una piccola riserva dei Navajo nella Monument Valley, Utah – forse mantenuta così per attrarre i turisti – un nativo mi ha aiutato ad aprire il pulmino, che, senza nessuno dentro, si era chiuso automaticamente con il motore acceso. Ho pensato a quel popolo, discendente dagli antichi Anasazi, insediati in quei luoghi da oltre 1300 anni prima di Cristo, forse originari della Mongolia. La loro cultura e tradizioni sembrano oggi adattate alle esigenze del turismo: poche case in legno, due negozi di souvenir, e a una dozzina di chilometri un villaggio fittizio con tende e cavalli, le iconiche rocce scolpite dal vento e dal tempo in forme di elefanti, uccelli, cammelli. Un deserto rosso che si tinge di tramonto, una striscia di strada che porta alla zona degli hotel con aria condizionata.
Il giorno prima, in Arizona, ho visitato la Foresta Pietrificata, dove un lungo e sottile serpente, docile, è mostrato al pubblico dal ranger, anch’egli al servizio del turismo. Chilometri e chilometri percorsi di notte, senza case, villaggi o auto, immersi nelle riserve vicino all’Area 51. E ora, rientrato in Italia, noto scene nuove: un saio nero con due fessure per gli occhi spinge una carrozzina al mercato del sabato – per fortuna, solo con delle tendine ricamate. Verrà forse il giorno in cui pagheranno anche noi per gridare “Forza Arezzo!” in accento autentico a una partita di cricket.
Dicono che siamo 99 mila abitanti, ma se andassero a contare chi vive oltre il sottopassaggio, in zona via Romana, troverebbero forse il doppio. Regolari e non, sfruttati, clandestini o ospiti censiti e non censiti. I campanelli non bastano più per segnare i domicili. E al pronto soccorso? Trovi tanti esenti, mentre tu, “indiano”, aspetti due giorni. Forse un tempo non ci si sarebbe mai immaginati in certi scenari, ma chissà, un giorno mi pagheranno per gridare “ALO’!”