Erano amici prima e dopo la guerra. Alcuni, dopo l’8 settembre, si erano sposati e avevano messo su famiglia. C’era chi era stato nei Bersaglieri paracadutisti, chi nei carristi, chi nell’esercito; chi era morto in Africa, chi era naufragato, chi era rimasto sotto le bombe.
Il gruppo dei sopravvissuti, pur avendo famiglia, rimase unito: tutti tifosi dell’Arezzo, legati da ricordi e amicizie profonde. Ma di quel gruppo erano rimasti in tre, soltanto tre scapoloni.
Uno di loro era Andrea, il mio padrino: elegante, distinto, stimato da tutti. La domenica pranzava sempre da noi. Era talmente benvoluto che lo nominarono amministratore di una società che gestiva gli impianti e l’albergo della Burraia.
Il secondo era Attilio, un uomo non alto, ma con spalle larghe come un armadio.
Il terzo, Camillo, era il più simpatico: basso, un po’ grassottello, sempre a bordo della sua Topolino. Viveva con le sorelle, e con loro condivideva una quotidianità semplice e allegra.
Ebbene, tutti e tre — senza moglie né figli — frequentavano la Baffa.
La Baffa era una signora non ancora sposata (di cui non farò il nome), che accoglieva con garbo le attenzioni dei tre, senza mai decidersi a quale di loro concedere la mano — ammesso che qualcuno gliel’avesse mai chiesta!
Era una donna di aspetto piacevole, con un solo piccolo difetto: un po’ di peluria sul labbro superiore.





