Beppe Sodo, all’anagrafe Giuseppe Bartolini, era l’uomo del Falterona. Alto, asciutto, nervi e muscoli tesi come corde d’acciaio, sembrava fatto della stessa materia dura e selvaggia della montagna. È stato lui a portarmi, durante i lunghi inverni, a sfamare una vecchia lupa solitaria. La incontravamo in un viottolo innevato tra il rifugio del Vai e lo skilift della STIF, alla Burraia. Una lupa magra, fiera, che ci aspettava come fosse parte della montagna stessa.
Quando ero troppo leggero per riuscire a tendere la molla della sciovia a stanga lunga, Beppe mi caricava sulle spalle, come fosse la cosa più naturale del mondo. E lo era, per lui.
Una volta stava portando una pentola fumante di sugo fino al rifugio, per i giovani avventori affamati. Ma una cunetta del Gabrendo lo tradì: scivolò, e il sugo finì sparso per la neve — e sui suoi calzoni. Le sue imprecazioni riecheggiarono tra gli abeti come un tuono improvviso. Non so se i santi scesero a calmarlo, ma di sicuro lo sentirono fino al campanile di Campigna. Persino il parroco, dopo una rovinosa caduta nei prati innevati, si era messo a guardare il cielo, borbottando: “Da qualche parte sarà!!?”
E poi c’era Fabio, il centenario che aveva visto la Foresta trasformarsi in patrimonio dell’umanità. Uomo silenzioso, dagli occhi antichi, come il bosco. E Clauser, che un giorno si fece calare con una carrucola nel Bosco del Fratino — un luogo sacro, dove per oltre mille anni nessun piede umano aveva osato entrare. Là dentro, i faggi si riproducevano da secoli, in un ciclo perfetto e ininterrotto. Clauser lo capì. E lo lasciò così com’era, senza spezzare quella continuità primordiale.
Un tempo, quei boschi appartenevano ai Lorena. Il Granduca aveva fatto costruire un albergo a Campigna, sua residenza estiva. Fu allora che chiamarono un uomo, Simon o Simoni, che diede inizio ai “piantomaio” — piantagioni ordinate di conifere che modificarono il volto della foresta. Anche dopo l’Unità d’Italia, il bosco restò proprietà dei Lorena. Ma i discendenti di Simoni non avevano l’amore né il rispetto del loro avo. E così, nei primi del Novecento, la foresta fu venduta a un armatore dell’Elba. Il legname serviva a produrre gas combustibile. Costruirono perfino una ferrovia a scartamento ridotto per portare i tronchi giù a valle.
Nel 1914 la foresta passò al Demanio Regio. Poi venne la guerra, la Linea Gotica, la ritirata tedesca, le ferite. Ma la foresta seppe rinascere. Prima con la STIF, poi grazie a Clauser, che la salvaguardò come un santuario.
Ricordo tutto come fosse ieri. Era il 1961 quando vidi il serpente più lungo della mia vita. Tra il Passo della Calla e il primo albergo, strisciava lento, silenzioso. Era grosso quanto un tubo per l’irrigazione, lungo almeno quattro metri. Una visione antica, primordiale. Come la foresta che lo nascondeva.



Rifugio del Cai