La morte arriva in un attimo, quasi con facilità, ed è un pensiero che, visto dall’aldilà, potrebbe persino strappare un sorriso. Per chi ha patito tanto o per chi è arrivato a stento a quell’ultimo respiro, la morte può rappresentare una liberazione. Tuttavia, nulla è mai veramente perduto: gli altri rimangono e noi, un giorno, lasceremo a loro il nostro ricordo, in un misto di mancanza e presenza, legato alla memoria di momenti tristi o felici.
Entrare nella vita, al contrario, non è una nostra scelta. È una combinazione di eventi: amore, casualità, matematica, conoscenza e rapporti. Appena entrati, la bellezza sembra risiedere solo nell’inizio. In quel periodo senza pensieri, ci nutrono, ci lavano, ci accudiscono. Ma presto iniziano le difficoltà: i primi dolori con i dentini, le cadute che fanno male, il senso di frustrazione nel non essere compresi, pur sapendo esattamente ciò che si desidera.
E così la vita continua, tra obblighi e sfide. Arrivano le scuole materne, con le loro piccole umiliazioni, come un incidente imbarazzante davanti ai coetanei. Poi le elementari, le medie, e il lungo percorso di istruzione obbligatoria. Una volta terminate queste tappe, ci si trova davanti a un bivio: continuare a studiare o essere, inevitabilmente, un peso per qualcuno. E lavorare? Impossibile da minorenni, perché sarebbe considerato sfruttamento.
Trovi magari una compagna, un’amica, una donna. Ma poi? La decisione di mettere al mondo un altro essere umano diventa un dilemma: lo fai volontariamente o è un errore? È qui che emerge una riflessione culturale. Nei paesi musulmani, ad esempio, la questione non si pone: il seme non va sprecato. Da noi, invece, prevale la razionalità, ma è proprio questa razionalità che alimenta la denatalità.
La domanda è inevitabile: siamo noi a essere troppo razionali, o sono loro a vivere con incoscienza? E quale delle due prospettive è davvero migliore?