Chissà come fosse arrivato nella casa dei nonni quello scatolone di latta. Era un cubo di trenta centimetri per lato, verniciato di grigio da mio fratello. Per me, era una coperta di sicurezza, uno scrigno di giochi. Persino quando andavo a letto, lo lasciavo lì, in fondo alla grande stanza della torre – sei metri per sei – dove dormivamo noi cugini, anche in otto.
La Carlinga era un pezzo di legno massiccio, senza ali, una vera fusoliera di un aeroplano giocattolo, forse degli anni ’30. Dipinta di un verde scuro, somigliava più a una mezza mazza da baseball che a un aereo. Eppure, per me era tutto: un aereo, un treno, una nave, persino un’arma di difesa.
La Fibbia, invece, è l’unico oggetto che mi è rimasto. Era – ed è – una fibbia di un paracadute, dotata di un piccolo carrello scorrevole. Per me diventava un trattore, un coltro, un carro armato, un compagno di avventure per i giochi in giardino.
I tre birilli, anch’essi in legno massiccio, avevano una personalità tutta loro. Due erano celesti, con una striscia gialla a metà e il capo sferico, dalla forma sinuosa, con una base più stretta rispetto al fusto. Non erano “pancioni”, erano bellini, alti circa 25 centimetri. Il terzo birillo, invece, era rosso, sempre con la striscia gialla a metà. Si dava delle arie, forse perché valeva di più. A dire il vero, non mi piaceva molto, ma non volevo separarlo dagli altri due.
Erano le mie sentinelle quando giocavo da solo, i miei interlocutori silenziosi. Restavano sempre lì, a fissarmi, come simulacri immobili. Non capivano niente, ma osservavano ogni mio movimento. Eppure, la loro presenza mi faceva compagnia, e ne ero felice.