Dopo la battaglia del 1440, in cui la lega fiorentina, insieme ad alcuni anghiaresi, sconfisse le truppe dei Visconti di Milano, alle quali si erano uniti anche i biturgensi, ogni 29 giugno si teneva ad Anghiari la festa e la fiera di San Pietro, celebrata più per ricordare la vittoria che il santo.
Nel 1450, dieci anni dopo la battaglia, alla festa parteciparono anche alcune persone del Borgo di Sansepolcro. Ben presto, scoppiarono battibecchi e prese in giro che sfociarono in una rissa, e gli ospiti biturgensi furono cacciati fuori dalle mura di Anghiari. Tuttavia, in segno di ritorsione, riuscirono durante la notte a rubare un catorcio.
Molti potrebbero non conoscere il termine “catorcio” né le sue differenze con il “catenaccio”:
- Catenaccio: una spranga piatta di ferro, utilizzata per chiudere le porte tramite dei passanti posti su entrambe le ante.
- Catorcio: un segmento tondo di ferro con un manico finale. Inserito in due anelli di ferro sulle ante della porta, aveva una funzione simile al catenaccio. Il catorcio era poi chiamato “chiavistello” perché il manico poteva avere una fessura che, con una barra forata inserita su un’anta e incastrata nella fessura stessa, permetteva l’uso di un lucchetto.
Per diversi anni, questa contesa per il catorcio continuò tra Anghiari e Sansepolcro, finché la Signoria di Firenze lo portò con sé, e oggi è custodito nel Museo della Battaglia.
Nel tempo, il termine “catorcio” è stato utilizzato per indicare veicoli malandati o persone in cattive condizioni fisiche. Sul tema, il presbitero Federico Nomi (1633-1705), nato ad Anghiari e morto a Monterchi, celebre latinista, scrisse un poema umoristico in toscano.