Dopo aver superato brillantemente gli esami di terza media, fui premiato dai miei genitori. Contribuendo anche con i miei risparmi settimanali, partimmo per la terza volta allo Stelvio.
Era il lontano 1960. Le volte precedenti avevamo viaggiato in treno, ma stavolta Paolo e Piero, appena diciottenni, avevano la loro Fiat 600. Arrivammo al vecchio albergo Sertorelli dopo aver attraversato il San Donato, preso l’autostrada nuova da Firenze fino a Fiorenzuola, e poi passando per Iseo e l’Aprica.
Il viaggio durò circa sette ore, senza contare la sosta per il pranzo. Arrivammo stanchi morti, tanto che non partecipammo nemmeno al trasferimento dello skilift, poiché la neve a valle non reggeva più.
Ricordo il lavoro immane: trascinare la slitta col motore, il cavo d’acciaio e il treppiede della carrucola di partenza. Due anni prima avevamo già fatto la stessa cosa, battendo la pista del campo scuola, con un tracciato da una quindicina di porte da gigante.
Durante la selezione, formarono una classe agonistica per i ragazzi sotto i quindici anni, e io fui incluso. Quattro degli otto membri entrarono poi nella squadra nazionale. Ogni tanto si allenavano con noi anche Rolando e Gustavo Thöni, i cugini di Trafoi, che all’epoca frequentavano ancora le elementari.
Io, a quei tempi, avevo tutti i capelli, un fisico da atleta, ma pochissima esperienza con le ragazze. Solo Gabriella mi aveva insegnato qualcosa sul baciare.
Tra le coetanee dei miei amici e di mio fratello diciottenne, ce n’era una — né brutta né bella, con una coda di cavallo e capelli crespi, formosa, non molto alta — che l’ultimo giorno mi aspettò, dopo che avevo ricevuto l’attestato del corso, per invitarmi nella sua camera.
Una stanza con due letti a castello, mentre noi alloggiavamo in una da quattro.
Fui sopraffatto: un paio di seni sodi e dai capezzoli marcati mi si presentarono davanti. Ero ancora sbalordito quando mi furono tirati giù i pantaloni. Rimasi nudo, eccitato. Le sue labbra calde e carnose mi avvolsero. Ogni tanto alzava lo sguardo verso di me, stringendomi tra quei seni sodi come se volesse affondarmi in un abbraccio carnale.
Quando raggiunsi l’orgasmo, esplosi nel suo collo, come i rivoli di neve che si sciolgono in primavera.
Lei mi pulì con un asciugamano e si deterse anche i seni. Solo allora notai che indossava un vestitino a fiorellini, di quelli da bancarella, abbottonato davanti e senza reggiseno. Mi fece uscire, chiudendo la porta dietro di sé con un sorriso soddisfatto e malizioso. Al momento dei saluti generali, non mi rivolse neppure uno sguardo.
Portai con me, fino al ritorno ad Arezzo, quel senso appiccicoso e confuso.
Mi resi conto solo allora: ero stato stuprato.