In Inghilterra si credeva che fosse velenoso, e anche negli Stati Uniti, fino al 1831, quando un certo Robert Gibbon Johnson ne mangiò uno crudo davanti agli esterrefatti cittadini. In Europa, la pianta del pomodoro era considerata una curiosità e venne battezzata “Apples of Love” (pomi d’amore).
In Spagna si tentò di farne una salsa, aggiungendo olio e cipolla, da mettere sulla carne. Tuttavia, è ad Arezzo che nasce la vera cucina del pomodoro. Un gesuita, Francesco Gaudenzio, di umili origini e poca istruzione, si era fatto apprezzare pur non diventando sacerdote, rimanendo un laico coadiutore (portinaio e addetto alle spese alimentari). Trasferito ad Arezzo presso il convento, l’attuale Convitto Nazionale, si dedicò alla cucina, guadagnandosi apprezzamenti tra pentole, tegami e ricette. Sebbene in maniera più modesta rispetto a Dom Pérignon in Francia (noto per la fermentazione del vino bianco in bottiglia), Gaudenzio sviluppò un profondo interesse per la cucina.
Ad Arezzo, verso la fine del 1600, Gaudenzio iniziò a preparare la pasta “Agreste” (pasta al pomodoro) e “struffava” il pomodoro su fette di pane unte d’olio. Inoltre, come cuoco del collegio, apprese altre due ricette tipiche aretine: l'”acquacotta”, legata alla tradizione della transumanza, e il “cibreo”. Quest’ultimo piatto è fatto con ritagli di fegatini di pollo, beccaccia o pernice, burro, salvia, cipolla, tuorli d’uovo e limone, il tutto cucinato in brodo di pollo.
Il ricettario manoscritto di Francesco Gaudenzio, risalente al 1705, documenta queste ricette ben 70 anni prima che il pomodoro entrasse ufficialmente nella cucina italiana, grazie al “Cuoco Galante” scritto da Vincenzo Corrado, abate della penisola salentina.
Arezzo, dunque, è la patria del pane struffato al pomodoro e della pasta al pomodoro. I preti e i frati, si sa, sono tutti buongustai!