PINO E MICHELANGELO
Pino: “Dove eravamo rimasti, Lin? Ah, ora ricordo, s’è parlato del Bacco!”
Pino prosegue: “Nella Basilica di San Pietro in Vincoli a Roma, troviamo un’altra scultura, il Mosè.
Solo la potenza del personaggio, come un dio, come Giove, seduto che guarda il suo seguito religioso che arriverà.
L’artista rappresenta solo la sua imponenza, abbandonando ogni edonismo, cioè il perseguire il proprio piacere. Una volta mi ritrovai per caso in questa Basilica sul monte Oppio, Eudossiana, fondata da Licinia Eudossia, colei che chiamò i Vandali a Roma nel 435… Maremma zoppa, che caldo fa!” Continua a leggere
Lin: “Continua, zio, che m’addormento!”
Pino: “Allora passiamo al David!”
Lin: “Quello con il grillo piccino nella Galleria dell’Accademia?”
Pino: “Sei come tua madre, Ruth, che è rimasta invasata dalle misure delle parole!
Taci e ascolta.
In quest’opera, come mai in nessun’altra, si raggiunge l’impegno plastico di Michelangelo, il punto di arrivo di tutte le sue meditazioni e studi sulla forma, in cui l’uomo viene definito per sempre nella sua dimensione fisica e morale!”
Lin: “Zzzzzzzz… Zzzz…”
Pino (pensando): “Questi giovani d’oggi sono privi di interessi.
E pensare che è tanto bella la nostra Italia.
Sta’ a vedere che la daranno in mano alle multinazionali galattiche!”
Entra Ugo e dice: “L’hai fatta addormentare con tutte queste cavolate?”
Pino: “Macché cavolate, ero arrivato quasi alla Pietà di Michelangelo!”
Ugo: “Pietà? Io a quel ristorante ho sempre mangiato bene!”
Pino senza “Pietà” del Michelangelo
Lin dormiva, Ugo pensava al ristorante, e così Pino smise di acculturare la famiglia. Intanto, dopo una delle solite cene preparate da Mana, ad Aloe era rimasto un osso intrappolato tra i wafer di semiconduttori, di circuiti elettrici integrati, a membrane naturali. Continua a leggere
Mana aveva preparato ossibuchi di tacchino sintetico lessati e rifatti al pomodoro con cipolla e prezzemolo, con contorno di piselli lessati a parte e inseriti quasi a fine cottura con la carne… Boni sì, ma pericolosi.
Ugo si mise il casco-ambulance di fabbricazione americana e corse in ospedale al terzo piano sospeso con Aloe.
Gli ospedali di quegli anni erano centri di smontaggio e rimontaggio di briceautonome; per gli umani, per modo di dire, esistevano solo pozioni magiche o creme miracolose commercializzate a 39 bufale soltanto.
La “bufola” era la moneta corrente che non dava scossa — non è un gioco di parole, quelle vere non davano scossa, ma quelle false sì. Non chiedetemi come e perché, mi è venuta così, d’impronta.
Entrati in ospedale, dove dottori e infermiere erano solo briceautonome qualificate, Aloe fu ricoverata d’urgenza in sala operatoria, e Ugo aspettò in una saletta attigua.
La saletta era usata anche come sala d’attesa per i padri durante il parto delle briceautonome.
Infatti, c’era un altro uomo, che si presentò a Ugo: “Il mio nome è Cerrutti Gino, ma mi chiamano Drago.”
Dopo i convenevoli di presentazione, entrambi si misero a sfogliare una rivista: uno leggeva “Visto” del 2000, l’altro “Bolero”, storie illustrate del 1961.
All’improvviso, dalla sala parto uscì un’infermiera briceautonoma…
“In mancanza di carta, in mancanza di carta!” urlava scomparendo nel corridoio laterale.
Gino: “Ma che, nelle stampanti 3D con reattore nucleare integrato a espansione, inserito nelle vagine delle briceautonome, ci vuole la carta?” domandò il “Drago” all’unico presente, Ugo.
Ugo: “Sarà forse un modello antiquato!”
Nel frattempo, tornò l’infermiera con un rotolo di carta igienica, e Gino chiese spiegazioni…
L’infermiera rispose: “È merda, è merda!” e corse di nuovo dentro la sala parto…
(Continua!?)
Per farla breve, ad Aloe fu tolto l’osso di tacchino sintetico, mentre alla briceautonoma, contemporaneamente, durante il parto, uscì un piccolo bambino “duttilino”, a cui fu dato il nome Drago Junior.
Ma durante il parto, il piccolo ebbe una crisi intestinale, e… beh, il resto è storia.